L’aria – ed in particolare l’anidride carbonica, l’ossigeno e l’umidità in essa contenuti – può provocare la corrosione delle armature metalliche a seguito di un fenomeno denominato carbonatazione. In realtà, il ruolo dell’anidride carbonica (CO2) è quello di un complice, mentre i veri killer nei confronti dei ferri sono l’ossigeno e l’umidità contenuti nell’aria, come è mostrato nel processo [10.1].
Inizialmente nel calcestruzzo si stabiliscono, per lo sviluppo di Ca(OH)2 a seguito della idratazione del cemento secondo la reazione [3.3] (§ 3.5; 3.6), condizioni di forte basicità (pH>13) particolarmente favorevoli alla buona conservazione delle armature metalliche; in queste condizioni, infatti, sul ferro si forma un film di ossido ferrico impermeabile e adesivo al substrato metallico (Fig. 10.2). In questa situazione (detta di passività) la pellicola impermeabile di ossido impedisce all’ossigeno ed all’umidità di arrivare al ferro metallico che si trova sotto il film impermeabile e pertanto impedisce la formazione di ruggine secondo lo schema del processo [10.1].Quando però la zona di calcestruzzo che protegge i ferri (copriferro) è completamente penetrata dall’anidride carbonica, la situazione cambia radicalmente.Infatti, l’anidride carbonica annulla la basicità a seguito del processo di carbonatazione che consiste nella trasformazione della calce in carbonato di calcio:A seguito della neutralizzazione della calce, per effetto della reazione [10.2], il pH scende a valori di circa 9 ed il ferro, già a pH minori di 11, perde la sua passività (depassivazione), cioè è in grado di subire la corrosione (Fig. 10.3) secondo l’equazione [10.1]. In sostanza, il film di ossido inizialmente protettivo (per la sua impermeabilità all’ossigeno ed all’acqua) diventa poroso ed incoerente se il pH scende sotto 11 e non è più in grado di bloccare l’accesso dell’ossigeno e dell’umidità al
substrato metallico (Fig. 10.4). In queste condizioni a seguito della trasformazione del ferro in ruggine (circa 6-7 volte più voluminosa del metallo) il copriferro viene prima fessurato (Fig. 10.4) e quindi espulso (Fig. 10.5).La carbonatazione, di per sé, non danneggia il calcestruzzo e neppure danneggia direttamente i ferri di armatura. Essa crea solo le condizioni favorevoli al processo di corrosione da parte dell’ossigeno e dell’umidità (M. Collepardi, R. Fratesi, G. Moriconi, C. Branca, S. Simoncini, “L’influenza della carbonatazione sulla corrosione dei ferri nel calcestruzzo armato”, Giornate AICAP’89, Napoli 4-6 maggio (1989), disponibile su www.encosrl.it ? Pubblicazioni scientifiche ? Corrosione e protezione delle armature nelle strutture in c.a. e c.a.p. ? Articolo N. 7).In altre parole, un calcestruzzo armato conservato in un ambiente di pura CO2 potrà subire una completa carbonatazione del copriferro senza, però, alcun rischio di corrosione per le armature metalliche a causa della mancanza dei prodotti (H2O, O2) che alimentano la trasformazione di ferro metallico in ruggine secondo il processo [10.1]. Ciò non toglie che la velocità con cui la CO2 penetra nel calcestruzzo sia di grande importanza nel determinare il tempo durante il quale il copriferro protegge i ferri di armatura dalla corrosione.La velocità con cui il fronte della carbonatazione avanza nel copriferro segue una legge del tipo:dove x è lo spessore di calcestruzzo penetrato dalla CO2 al tempo t, e K è una costante che dipende dalla qualità del calcestruzzo, in particolare dal rapporto a/c oltre che dal tipo e classe di cemento, ma anche dall’UR dell’aria raggiungendo il valore massimo a circa 60-70% di UR.Lo spessore carbonatato x è determinabile spruzzando una soluzione di fenolftaleina (che cambia colore se il pH è sopra o sotto 11) sulla superficie di frattura di un provino di calcestruzzo esposto all’aria, e registrando la variazione di colore da rosso a grigio come è mostrato in Fig. 10.6 (M. Collepardi, “Analisi del calcestruzzo in laboratorio”, Atti della Conferenza: Durabilità del Calcestruzzo. Lugano, Novembre (1986), disponibile su www.encosrl.it ? Pubblicazioni scientifiche ? Degrado, durabilità e restauro delle strutture in calcestruzzo ? Articolo N.12). La zona bassa del provino – a pH >11 perché non carbonatata – si colora in rosso mentre lo spessore della zona grigia superiore – a pH <11 in quanto carbonatata – rappresenta x nell’equazione [10.3] al tempo t; facendo più determinazioni di x a tempi t diversi si può calcolare K (Tabella 10.2) dalla pendenza della retta x contro ?t (Fig. 10.7).La Fig. 10.8 mostra l’applicazione del test alla fenolftaleina in una struttura le cui armature sono immerse in un calcestruzzo carbonatato: questo tipo di test consente di stabilire lo spessore di calcestruzzo carbonatato da rimuovere e sostituire con una nuova malta in fase di restauro.
Come ci si può difendere dalla corrosione promossa dalla carbonatazione? Sostanzialmente con due accorgimenti:a) ridurre il rapporto a/c, perché questa riduzione rende la matrice cementizia meno porosa (§ 8.5), più compatta e quindi meno penetrabile tanto dal complice (CO2) quanto dai due killer (O2 e H2O);b) aumentare lo spessore del copriferro;c) impiegare acciaio zincato più resistente alla corrosione da carbonatazione (R. Fratesi, G. Moriconi, L. Coppola, “The Infl uence of Steel Galvanization onRebars Behaviour in Concrete”, Proceedings of the “Fourth International Symposium on Corrosion of Reinforcement in Concrete Contruction”, pp. 630-641, Cambridge, U.K., Luglio (1996), disponibile su www.encosrl.it ? Pubblicazioni scientifiche ? Corrosione e protezione delle armature nelle strutture in c.a. e c.a.p.? Articolo N.16).I primi due accorgimenti trovano un riscontro quantitativo nelle normative attraverso l’imposizione di un vincolo, sia sul rapporto a/c sia sullo spessore di copriferro, come verrà mostrato più avanti (§ 11.2).Ci si potrebbe chiedere se nei calcestruzzi con parziale sostituzione del cemento Portland da parte di materiali pozzolanici o loppa -dove per effetto della reazione [3.4] è presente una minore quantità di calce (§ 3.6)- la velocità per neutralizzare la calce con il processo di carbonatazione aumenti rispetto ai corrispondenti calcestruzzi senza pozzolana o loppa. I risultati sperimentali indicano che la velocità di carbonatazione non cambia se si sostituisce parte del cemento Portland con cenere volante o loppa purché il confronto sia fatto tra calcestruzzi di pari resistenza meccanica (M. Collepardi, S. Collepardi, J.J. Ogoumah Olagot, F. Simonelli, “The infl uence of slag and fl y ash on the carbonation of concrete”, Proceedings of the CANMET-ACI International Conference on Fly Ash, Silica Fume, Slag and Natural Pozzolans, Las Vegas, USA, 2004, pp. 495- 506, disponibile su www.encosrl.it ? Pubblicazioni scientifi che ? Aggiunte Minerali per malte e calcestruzzi ? articolo N. 20; A. Borsoi, J.J. OgoumahOlagot, F. Simonelli e R. Troli; “ Infl uenza della resistenza meccanica del calcestruzzo sulla carbonatazione”, Enco Journal N.42, Settembre 2008, disponibilesu www.enco-journal.com ? Gli ultimi numeri ? Enco Journal N. 42).I risultati mostrati nella Tabella 10.3 mostrano la penetrazione dell’anidride carbonica in calcestruzzi con o senza sostituzione del cemento Portland da parte di cenere volante (25 %) o loppa (15-50%) di pari resistenza meccanica (compresa nell’intervallo di 40-45 MPa) esposti all’aria fi no a 360 giorni. In tutti i calcestruzzi la penetrazione, che è trascurabile a 1 mese (0.0-0.5 mm), raggiunge un valore compreso tra 5 e 7 mm dopo 1 anno. Questi risultati appaiono plausibili perché una pari resistenza meccanica dei calcestruzzi è sintomo di una pari porosità capillare della pasta cementizia (§ 8. 2) e quindi di una pari permeabilità (§ 8.4) dell’anidride carbonica nella matrice cementizia.
La velocità di carbonatazione è molto condizionata dalla umidità relativa (UR) ambientale: la carbonatazione procede molto lentamente in ambienti saturi di umidità con UR prossima a 100% o molto asciutti (UR < 20 %); la massima velocità di carbonatazione avviene in ambienti con UR tra 65% e 85% (P. Pedeferri e L.Bertolini, La durabilità del calcestruzzo armato”, Mc Graw Hill Italia, Milano, 2005). La variazione di UR durante l’esposizione delle strutture in calcestruzzo all’aria rende molto difficile prevedere la penetrazione di carbonatazione a causa della difficoltà a conoscere la “storia igrometrica” ambientale con UR variabile in funzione degli eventi atmosferici. In altre parole, la linearità della curva x contro t che appare nella equazione [10.3] e nei grafi ci della Fig. 10.7 si verifica solo in provini di calcestruzzo esposti in laboratorio con UR costante.Tuttavia, anche con questa limitazione, l’equazione [10.3] consente di prevedere con buona approssimazione quando il fronte della carbonatazione raggiungerà i ferri di armatura dopo aver penetrato interamente il copriferro di una struttura in calcestruzzo esposto all’aria in condizioni igrometriche variabili. Si supponga, per esempio, che attraverso la misura in situ mostrata in Fig. 10.8, si determini uno spessore di carbonatazione di 15 mm dopo 10 anni dalla costruzione dell’opera in calcestruzzo armato che presenta un copriferro di 25 mm come (Fig. 10.6). Sebbene non sia dato di conoscere la UR e la sua variazione nei primi 10 anni di vita di servizio della struttura, si può calcolare il coefficiente “medio“ di carbonatazione K che si è di fatto instaurato nell’arco della esposizione per 10 anni della struttura all’aria mediante l’equazione [10.3]:
x = K • ?t ? K = x/ ?t = 15 ?10 = 5 mm•anno-1/2
Quindi, anche ammettendo che la UR non sia rimasta costante durante i primi 10 anni di esposizione del calcestruzzo all’aria, in relazione alle variabili condizioniclimatiche ambientali, si può assumere che nel caso specifico il valore “medio” di K è eguale a 5 mm•anno-1/2. Inoltre, si può ragionevolmente assumere che nel restante periodo di esposizione all’aria, necessario per carbonatare tutto lo spessore di copriferro (25 mm), le condizioni igrometriche ambientali, ancorché variabili, saranno mediamente variabili come quelle dei primi 10 anni di vita di esercizio. Secondo questa ragionevole ipotesi, il K “medio” nel restante periodo per arrivare a carbonatare tutto il copriferro, si manterrà sullo stesso valore di 5 mm•?anno-1/2 registrato nei primi 10 anni. Con questa ipotesi il tempo t per carbonatare completamente il copriferro di 25 mm secondo la [10.3] sarà:
x = K•? t = 25 = 5? t ? t = (x/K)2 = (25/5)2 = 25 anni
Pertanto, tenendo conto che sono già trascorsi 10 anni per carbonatare i primi 15 mm di copriferro, il tempo residuo perché il fronte della carbonatazione arrivi ai ferri di armatura è di 25-10 = 15 anni.
Questa informazione, deducibile con una semplice rilevazione della carbonatazione del copriferro dopo un tempo noto dalla costruzione dell’opera, consente di stabilire razionalmente il tempo ancora a disposizione (nell’esempio specifico 15 anni) per intervenire con una eventuale azione di restauro prima che il fronte della carbonatazione raggiunga il copriferro, e quindi prima che l’armatura metallica sia depassivata (Fig. 10.3) con conseguente rischio di corrosione (Fig. 10.4). L’intervento di restauro (M.Collepardi, M.Corradi, S.M. Guella “Proprietà degli impasti cementizi per il consolidamento ed il ripristino strutturale di costruzioni ammalorate”, Atti delle Giornate AICAP, Venezia 1977, Pubblicato sul Notiziario AICAP pg.11,1978, disponibile su www.encosrl.it ? Pubblicazioni scientifiche ? Degrado, curabilità e restauro delle strutture in calcestruzzo ? Articolo N. 6) potrà consistere nella rimozione del copriferro completamente o parzialmente carbonatato e nel ripristino della condizione dipassività con l’applicazione di una malta in sostituzione del copriferro rimosso; in alternativa, prima che sia trascorsi 15 anni, si potrà proteggere la superficie della struttura in calcestruzzo con un rivestimento impermeabile all’aria e quindi alla CO2 , oltre che all’ossigeno e all’acqua.
Di Mario Collepardi, Silvia Collepardi, Roberto TroliL’acqua è uno dei tre protagonisti – insieme al cemento e all’aggregato lapideo – nel processo produttivo del calcestruzzo. Senza l’acqua non si può produrre il calcestruzzo. Ma se si esagera con l’acqua si confeziona un mediocre calcestruzzo in termini di resistenza meccanica e di durabilità. In realtà, ciò che penalizza la resistenza meccanica e la durabilità del calcestruzzo non è un’eccessiva quantità di acqua in assoluto, ma piuttosto un eccessivo rapporto tra la quantità di acqua (a) e quella del cemento (c). In altre parole, si può anche aumentare la quantità di acqua – se questo serve a migliorare la lavorabilità del calcestruzzo per esigenze di getto – a patto che si aumenti in misura proporzionale la quantità di cemento in modo da lasciare immutato il rapporto a/c tra questi due ingredienti. La “giusta” quantità d’acqua di impasto per confezionare un calcestruzzo deve soddisfare due requisiti: la regola di Lyse e la legge di Abrams.LA REGOLA DI LYSELa regola di Lyse si riferisce alla quantità di acqua che occorre impiegare per confezionare calcestruzzi di diversa classe di consistenza. La classe di consistenza, identificata da un codice (da S1 a S5), corrisponde ad un intervallo di lavorabilità espressa attraverso la misura dello slump. Per esempio, la classe di consistenza S2 corrisponde ad un calcestruzzo di consistenza plastica con uno slump compreso tra 50 e 90 mm . La regola di Lyse può essere così riassunta in due enunciati molto semplici e tra loro complementari: 1) per un dato diametro massimo dell’aggregato, maggiore è la classe di consistenza richiesta per il calcestruzzo fresco, maggiore deve essere la quantità di acqua nell’impasto; 2) per una data classe di consistenza del calcestruzzo, maggiore è il diametro massimo dell’aggregato, minore è la richiesta d’acqua per conseguire la consistenza prefissata. LA LEGGE DI ABRAMSNel 1918, D.A. Abrams – più famoso, forse, per aver inventato il “cono” con cui si misura lo slump – enunciò una legge fondamentale nella tecnologia del calcestruzzo: la resistenza meccanica ad una determinata stagionatura (per esempio: 28 giorni) e ad una determinata temperatura (per esempio: 20°C) aumenta al diminuire del rapporto acqua/cemento secondo l’equazione:R = K1/K2a/cdove R è la resistenza meccanica a compressione e K1 e K2 sono due costanti che dipendono dal tempo e dalla temperatura di stagionatura oltre dal tipo di cemento.Per esempio, con una stagionatura di 28 giorni a 20°C (cioè con i parametri stabiliti dalla normativa vigente per determinare la resistenza caratteristica), la correlazione tra R (espressa come resistenza caratteristica) ed a/c per i calcestruzzi confezionati con un cemento portland al calcare di classe 42.5 può essere rappresentata dalla curva della Figura 1.
Fig.1 – Resistenza caratteristica in funzione del rapporto a/c. Per Rck = 30 N/mm2 occorre adottare un rapporto a/c di 0.63. Se si riaggiunge acqua ed il rapporto a/c diventa 0.67 la Rck scende a 24 N/m2.
L’ACQUA “GIUSTA”Sulla base dei due principi sopra illustrati, possiamo ora determinare l’acqua “giusta” che occorre per soddisfare simultaneamente due fondamentali esigenze: quelle dell’impresa (lavorabilità) e quelle del progettista (resistenza meccanica). Un’esemplificazione numerica chiarirà meglio il metodo di calcolo. Supponiamo, per esempio, che per il getto sia richiesto un calcestruzzo a consistenza semi-fluida (classe di consistenza S3) e che l’aggregato disponibile abbia un diametro massimo (Dmax) di 25 mm. La richiesta d’acqua (a) è di 210 Kg/m3.
Supponiamo, inoltre, che la resistenza caratteristica (Rck) prevista in capitolato, sulla base di considerazioni statiche ma anche di durabilità (per esempio calcestruzzo armato in ambienti interni: classe di esposizione 1), sia 30 N/mm2 con un controllo di tipo A. Dalla Figura 1 (che correla Rck con il rapporto a/c) si deduce che il rapporto a/c deve essere 0.63. Avendo fissato il valore dell’acqua “giusta” in 210 Kg/m3 (per esigenze di lavorabilità), ed avendo fissato il rapporto a/c in 0.63 (per esigenze di resistenza meccanica), ne consegue che il dosaggio di cemento (c) deve essere uno ed uno solo:a/c = 210/c =0.63 è = 333 Kg/m3Val la pena si segnalare che se l’esigenza del cantiere, per la difficoltà del getto (ferri e forma delle strutture), comporta una maggiore lavorabilità (per esempio: consistenza super-fluida, S5), occorre aumentare la richiesta d’acqua e conseguentemente il dosaggio di cemento, anche se la Rck (30 N/mm2) rimane immutata. La richiesta d’acqua con classe di consistenza S5 e Dmax di 25 mm diventa 225 Kg/m3. Pertanto, per rispettare lo stesso rapporto a/c di 0.63 occorre adottare un maggior dosaggio di cemento (c):225/c = 0.63 è c = 357 Kg/m3 LA RIAGGIUNTA D’ACQUACome si è potuto vedere nell’esempio sopra illustrato, la variazione di consistenza del calcestruzzo fresco (da S3 ad S5, cioè da un calcestruzzo semi-fluido ad uno superfluido) comporta un aumento di acqua (da 210 a 225 Kg/m3), ma anche di cemento (da 333 a 357 Kg/m3). Ne deriva conseguentemente che l’aumento di lavorabilità, senza penalizzazione di resistenza meccanica, ha un costo identificabile nel maggior dosaggio di cemento (circa 20 Kg/m3). In realtà, l’aumento di lavorabilità può essere conseguito anche con aggiunta di additivi, senza modificare la richiesta d’acqua e il dosaggio di cemento. Ma ciò non cambia i termini del problema: l’aumento di lavorabilità, a pari Rck, comporta un aumento del costo del calcestruzzo derivante dall’impiego dell’additivo o dall’aumento nel dosaggio di cemento. Questa considerazione si riflette in pratica nei listini del calcestruzzo che vengono offerti, per una determinata Rck, a prezzi che aumentano con la lavorabilità richiesta.Come reagiscono solitamente le imprese a questa diversità dei prezzi del calcestruzzo in funzione della diversa lavorabilità? Ordinano il calcestruzzo alla consistenza più bassa disponibile (generalmente S3 e talvolta S2), e ri-aggiungono sul cantiere dentro l’autobetoniera l’acqua che occorre per portare il livello della lavorabilità a quello che realmente si richiede (generalmente S4 ma più spesso S5). La riaggiunta d’acqua – ovviamente non accompagnata da una proporzionale riaggiunta di cemento per mantenere inalterato il rapporto a/c – comporta un aumento di lavorabilità (regola di Lyse), ma anche una penalizzazione della resistenza caratteristica prevista in capitolato (legge di Abrams). Per rimanere all’esempio sopra illustrato, si può anche facilmente calcolare il grado di penalizzazione nella Rck a seguito di una riaggiunta d’acqua sul cantiere per trasformare un calcestruzzo semi-fluido (S3) in un conglomerato superfluido (S5):S3 è a = 210 Kg/m3; S5 è a = 225 Kg/m3Poiché il cemento è rimasto inalterato (c = 333 Kg/m3 per la classe di consistenza S3), il rapporto a/c aumenta da 0.63 a 0.67:a/c = 210/333 = 0.63 è 225/333 = 0.67Quindi, dopo la riaggiunta d’acqua, l’aumento del rapporto a/c comporta una diminuzione della Rck effettiva che, dopo la riaggiunta d’acqua, diventa circa 24 N/mm2 (Figura 1). CHI E’ RESPONSABILE?Chi è responsabile di questa manipolazione frequentemente praticata sui cantieri? La risposta è necessariamente complessa ed articolata giacché coinvolge tutta la catena degli operatori: dal produttore di calcestruzzo all’impresa, dal progettista al direttore dei lavori. Si potrebbe cominciare dal produttore di calcestruzzo le cui responsabilità, in realtà, sono modeste o nulle. Sono nulle, per esempio, quando offre a listino diverse opzioni di lavorabilità per una data Rck, quando registra sulla bolla di consegna la effettiva classe di consistenza consegnata, e quando chiede di controfirmare la bolla a chi richiede di riaggiungere acqua in autobetoniera sul cantiere. Non sono invece nulle le responsabilità, ma comunque limitate, quando in assenza di una specifica richiesta della classe di consistenza da parte dell’impresa, il produttore di calcestruzzo offre un impasto poco lavorabile solo per tenere basso il costo e battere la concorrenza di chi vorrebbe offrire un calcestruzzo più fluido, più costoso e più adeguato alle obiettive difficoltà di getto sul cantiere.Sicuramente maggiori sono le responsabilità dell’impresa quando modifica la lavorabilità del calcestruzzo consegnato con riaggiunta d’acqua. Nel momento, poi, in cui l’impresa controfirma la bolla di consegna attestando che ha espressamente richiesto una riaggiunta d’acqua firma anche un atto di oggettiva e documentata responsabilità in caso di contestazione da parte del direttore dei lavori o del collaudatore. Infatti, in caso di contestazione, un eventuale controllo della struttura mediante carotaggio che dovesse dimostrare la inadeguatezza del materiale, sarebbe facilmente correlabile con la riaggiunta d’acqua e la conseguente penalizzazione nella resistenza meccanica.Il progettista ritiene, in genere, che la lavorabilità del calcestruzzo sia un dettaglio esecutivo di irrilevante importanza e comunque debba essere affrontato dall’impresa. Un buon progettista dovrebbe valutare la difficoltà di realizzazione delle proprie strutture e rendere tanto più facile l’operazione pratica del getto quanto più difficile ne è stimata l’esecuzione. Si tratta, in sostanza, di scegliere quale dei cinque livelli di consistenza (da S1 a S5) è il più adeguato in relazione alla difficoltà esecutiva ed alla tecnica adottata. Se, per esempio, si deve realizzare una diga o una pavimentazione con vibrofinitrice è d’obbligo un calcestruzzo a consistenza di terra umida (S1). Se, invece, si deve costruire una ciminiera con la tecnica dei casseri rampanti, si deve prescrivere un calcestruzzo a consistenza plastica (S2) o al massimo semi-fluida (S3). Ma nella stragrande maggioranza dei casi, con la eccezione delle tipologie strutturali ora menzionate, è inutile ignorare la situazione sociale della manodopera presente nei nostri cantieri e la inadeguatezza tecnica dei sistemi di compattazione. E’ necessario in questi casi, prescrivere in capitolato una consistenza fluida (S4) e molto spesso superfluida (S5). Se non ci penserà il progettista in fase di progetto e di stesura del capitolato, sarà l’ultimo degli operai del cantiere – con il classico gesto della mano a pollice in giù – a richiedere di riaggiungere acqua per superare le difficoltà del getto.Sulle responsabilità del direttore dei lavori per la riaggiunta d’acqua sul cantiere credo ci sia poco da discutere. Di solito il direttore dei lavori non assiste ai getti del calcestruzzo, n affida ad un suo collaboratore l’incarico di sorvegliare questa importantissima fase della costruzione attraverso il controllo della lavorabilità ed il prelievo dei “cubetti” secondo le prescrizioni di legge. Eppure sarebbe molto facile, anche in assenza al momento dei getti, da una parte diffidare l’impresa dalle riaggiunte d’acqua in betoniera, e dall’altra chiedere copia della bolla di consegna dove il fornitore del calcestruzzo – a difesa dei suoi interessi – ha fatto registrare la eventuale richiesta d’acqua da parte dell’impresa. Se poi il direttore dei lavori dovesse verificare che la lavorabilità del calcestruzzo consegnato dal fornitore è assolutamente inadeguata alla difficoltà del getto, avrebbe tutti i poteri – ferma restando la Rck – di innalzare la lavorabilità del calcestruzzo consegnato ad un livello maggiore e tale da non dover essere più manipolato con riaggiunte d’acqua sul cantiere.Un dato è certo: in tutti quei casi in cui la direzione dei lavori non è latitante, ma assiste sul cantiere attraverso i controlli della lavorabilità ed il prelievo dei cubetti, la riaggiunta d’acqua non è consentita ed i risultati prestazionali dell’opera – in termini di resistenza meccanica e durabilità – sono indubbiamente conseguiti.
Si definisce durabile una costruzione in calcestruzzo armato con una vita utile di servizio di almeno 50 anni. Tuttavia, per opere di una particolare importanza strutturale o sociale si può raddoppiare la vita utile di servizio aumentando il copriferro di almeno 10 mm.
Chi trae il vantaggio economico dalla durabilità dell’opera? Solo il proprietario. Ed è quindi il committente dell’opera ed il suo progettista a dover rispettivamente pretendere e prescrivere la durabilità. In sostanza, occorre che la durabilità sia prescritta dal progettista in capitolato, che ci sia il giusto riconoscimento economico all’impresa, e che si eserciti un controllo in corso d’opera per verificare se la prescrizione è stata rispettata. La verifica della prescrizione è possibile solo se è basata su determinazioni di proprietà oggettivamente misurabili. Si dovrebbero bandire, da ogni capitolato che si rispetti, frasi generiche ed ambigue come “calcestruzzo di buona qualità” oppure “esecuzione a regola d’arte” o determinazioni impossibili come quella sul dosaggio di cemento in una carota di calcestruzzo.
La durabilità di un materiale è la capacità di conservare nel tempo le prestazioni iniziali in relazione all’ambiente in cui si trova. E’ importante, nel valutare la durabilità di una struttura, considerare l’ambiente in cui l’opera è destinata a sorgere. Le categorie ambientali più o meno aggressive nei confronti del calcestruzzo e dei ferri di armatura sono chiamate classi di esposizione e nella Tabella 1 sono mostrate le varie classi di esposizione. Tabella 1. Classi di esposizione secondo la norma UNI-EN 206Nei paragrafi che seguono verranno esaminati i parametri composizionali e lo spessore di copriferro per garantire la durabilità nelle varie classi di esposizione. Successivamente, verranno discusse alcune raccomandazioni esecutive da adottare sempre, indipendentemente dall’ambiente cui il calcestruzzo è esposto.
Gli ambienti interni (abitazioni, uffici, ecc.) sono quelli protetti dagli agenti atmosferici. Questo ambiente può arrecare qualche danno, solo ai ferri di armatura. L’aria – ed in particolare l’anidride carbonica, l’ossigeno e l’umidità in essa contenuti – può provocare la corrosione delle armature metalliche a seguito di un fenomeno denominato carbonatazione. In realtà, il ruolo dell’anidride carbonica è quello di un complice, mentre i veri killer nei confronti dei ferri sono l’ossigeno e l’umidità.In un calcestruzzo non carbonatato si stabiliscono, per lo sviluppo di Ca(OH)2 a seguito della idratazione del cemento, condizioni di forte basicità (pH > 13) particolarmente favorevoli alla buona conservazione delle armature metalliche, perché sul ferro si forma una patina di ossido impermeabile e adesivo al substrato. In questa situazione (passività) la pellicola di ossido impedisce all’ossigeno ed all’umidità di trasformare il ferro metallico in ruggine secondo il seguente schema:
3O2 | |||
4 Fe + | =====> | 4 Fe(OH)3 | [1] |
6H2O | |||
(metallo) | (aria umida) | (ruggine impermeabile) | |
Quando però la zona di calcestruzzo che avvolge i ferri è penetrata dall’anidride carbonica, la situazione cambia radicalmente. Infatti, l’anidride carbonica annulla la basicità a seguito del processo di carbonatazione:
Ca(OH)2 | + CO2 | =====> | CaCO3+H2O | [2] |
(calce) | (anidride carbonica) | (carbonato) |
In queste condizioni il pH scende a valori di circa 9 ed il ferro perde la sua passività (depassivazione) cioè è in grado di subire la corrosione secondo l’equazione [1]. La carbonatazione non danneggia il calcestruzzo e neppure danneggia direttamente i ferri di armatura. Essa crea solo le condizioni favorevoli al processo di corrosione da parte dell’ossigeno e dell’umidità, attraverso la diminuzione del pH. In sostanza l’anidride carbonica è solo un complice che spiana la strada ai veri responsabili (ossigeno e umidità) della corrosione.Come ci si può difendere dalla corrosione promossa dalla carbonatazione? Sostanzialmente con due accorgimenti:1) riducendo il rapporto acqua/cemento ( a/c), perché questa riduzione rende la matrice cementizia più compatta e quindi meno penetrabile tanto dal complice (CO2) quanto dai due killer (O2 e H2O); 2) aumentando lo spessore del copriferro. Nelle strutture normali, cioè non armate, non esiste alcun limite per a/c giacché, non esiste alcun rischio di corrosione. D’altra parte, per le opere in c.a. p. – rispetto a quelle in c.a. – occorre adottare misure preventive più conservative sia per a/c (0.60 anziché 0.65), sia per il copriferro (25 anziché 15 mm).
Gli ambienti esterni possono essere di due tipi: quelli esposti alla pioggia o in genere all’umidità (XC) e quelli esposti alle alternanze termica intorno allo 0°C con formazione di ghiaccio (XF). Nell’ambiente esposto alla pioggia si possono verificare fenomeni di dilavamento del calcare da parte dell’azione congiunta dell’acqua e della CO2. Per questo motivo è necessario abbassare il rapporto a/c a 0.60.Nelle strutture esposte ai cicli di gelo-disgelo occorre abbassare il rapporto a/c a 0.55, innalzare il copriferro di 5 mm, adottare aggregati non gelivi, e soprattutto inglobare aria in forma di microbolle uniformemente spaziate e capaci di ospitare l’acqua libera sospinta dalla formazione di ghiaccio.
Sono esposte ai sali disgelanti a base di cloruro nel periodo invernale le opere stradali, autostradali, aeroportuali e le pavimentazioni esterne. Oltre alle aggressioni presenti nella classe di esposizione XF, occorre tener conto della presenza dei cloruri capaci di promuovere una corrosione più severa (pitting corrosion) delle armature (XD). Pertanto, è necessario predisporre una risposta all’attacco aggressivo ancor più efficace che non negli ambienti esposti solo ai cicli di gelo-disgelo.
Sono previste due sub-ambienti: ambiente marino (XS) in clima temperato oppure accompagnato da cicli di gelo e disgelo (XF) . In entrambi i casi il calcestruzzo è esposto all’attacco dei sali solfatici, ed i ferri di armatura sono aggredibili dai cloruri. Nel caso in cui, nell’ambiente marino si verifichino anche cicli di gelo e disgelo, occorre adottare una linea difensiva più efficace inglobando microbolle d’aria.
La classe di esposizione XA riguarda le opere in calcestruzzo in ambiente chimicamente aggressivo: solfati, solfuri, ammoniaca, magnesio, sostanze acide, ecc. Tra questi agenti, il solfato gioca un ruolo determinante per la frequenza con cui è riscontrabile nei terreni, nelle acque naturali e negli ambienti industriali. Quando un calcestruzzo poroso viene a contatto con il solfato subisce degrado a seguito della reazione di quest’ultimo con i calcio-alluminati idrati (C-A-H) ed i calcio-silicati idrati (C-S-H), entrambi prodotti dall’idratazione del cemento.I fenomeni di degrado consistono nella formazione di due componenti (entrambi a carattere espansivo-dirompente) denominati ettringite e thaumasite formati per reazione del solfato rispettivamente con C-A-H e C-S-H. Per impedire il degrado è necessario adottare due misure: rendere il calcestruzzo meno poroso abbassando il rapporto a/c e stagionando adeguatamente il conglomerato; impiegare un cemento meno ricco in alluminati e quindi meno disponibile a formare l’ettringite. Per individuare il rapporto a/c e stabilire se si deve impiegare un cemento resistente ai solfati è necessario conoscere la concentrazione di solfato nell’ambiente.
Se è vero che un limite nel rapporto a/c è la premessa indispensabile per la costruzione di un calcestruzzo durabile, cosa si può fare in pratica per verificare che questo limite non sia stato effettivamente superato? La verifica di questo parametro offre non poche difficoltà anche a chi volesse determinare sia l’acqua di impasto, sia il dosaggio di cemento al momento del getto. Infatti, se in qualche modo si arriva a determinare l’acqua di impasto, la verifica del dosaggio di cemento – basato sul passante ad un certo vaglio del calcestruzzo fresco – presenta notevoli incertezze per la presenza di altri componenti non cementizi di paragonabile finezza. D’altra parte, la determinazione del dosaggio di cemento in un calcestruzzo indurito è di fatto oggi impossibile con la disponibilità dei leganti idraulici secondo la nuova normativa europea. Da tutto ciò deriva che l’unico modo praticabile, per verificare che sia stato effettivamente adottato il rapporto a/c prescritto consiste nel controllo indiretto della resistenza caratteristica (Rck) sugli impasti delle prove preliminari eseguite con il rapporto a/c prescelto. In mancanza di queste prove, la correlazione tra Rck ed a/c viene fornita indicativamente dalla norma UNI 9858 che stabilisce i criteri di durabilità del calcestruzzo in relazione alle classi di esposizione ambientale. Se nel calcestruzzo è necessario prevedere la presenza di un determinato volume di aria (4-6%) per le classi di esposizione i valori di Rck debbono essere abbattuti di circa il 20%.
Per garantire la durabilità delle strutture reali non è sufficiente rispettare il limite nel rapporto a/c e nel volume di aria. Per una struttura durabile occorre anche che in corso d’opera siano rispettate due altre condizioni tanto importanti quanto disattese nella pratica del cantiere: il calcestruzzo gettato deve essere costipato a rifiuto; il calcestruzzo al momento dello scassero deve essere protetto dall’evaporazione per un periodo di almeno 3 giorni. Sulla prima delle due condizione si possono fare le seguenti tre importanti considerazioni:- l’importanza della compattazione è legata al fatto che un calcestruzzo mal compattato presenta vuoti e macro-difetti che favoriscono l’ingresso degli agenti aggressivi nel materiale;- per assicurare realisticamente una buona costipazione è necessario che il calcestruzzo possegga un’adeguata lavorabilità (classe di consistenza S4 o S5) senza che si ricorra a riaggiunte d’acqua in cantiere che aumenterebbero di fatto a/c e penalizzerebbero la durabilità;- per verificare, in modo semplice, che l’impresa abbia costipato adeguatamente il calcestruzzo si può prescrivere in capitolato di misurare la massa volumica sulle carote estratte dalla struttura in opera e confrontarla con quella del provino impiegato per il controllo della Rck; la prima non dovrebbe risultare inferiore alla seconda per più del 3% (o di altro valore che si è disposti a tollerare).Sulla seconda condizione (stagionatura umida) per almeno 3 giorni è necessario sottolineare che un calcestruzzo rischia di non essere di fatto durabile se la sua “pelle” si essicca prima ancora che il cemento abbia potuto reagire con l’acqua di impasto. Se ciò accade, si verifica un arresto nel processo di idratazione con grave pregiudizio sulla impermeabilità dello strato corticale del conglomerato.Poiché anche la stagionatura ha un costo, difficilmente essa verrà offerta da un’impresa se questa operazione non è stata prevista in capitolato. In pratica, per assicurare una buona stagionatura umida occorre che la superfice a vista della struttura sia bagnata continuamente con acqua nebulizzata, oppure coperta con teli impermeabili o più semplicemente trattata con membrane anti-evaporanti applicate a spruzzo subito dopo la scasseratura.
Per concludere un calcestruzzo durabile richiede – già in fase di capitolato – che si definiscano tre aspetti da verificare in corso d’opera:
L’ Ettringite gioca più ruoli nel determinare il comportamento del calcestruzzo. A seconda delle circostanze e delle condizioni la sua formazione può essere benefica o negativa. Un po’ come quel famoso personaggio dalla doppia personalità: quella benevola di Mr. Hyde, e quella criminale di Dr. Jekyill. Da un punto di vista chimico l’ettringite è un trisolfo-alluminato di calcio idrato: 3CaO•Al2O3•3CaSO4•32H2O. Tuttavia il suo comportamento ed i suoi effetti sulle prestazioni del calcestruzzo sono poco correlabili con la sua composizione chimica, quanto piuttosto con le modalità ed i tempi di formazione.
La formazione di ettringite svolge sicuramente un ruolo positivo nella regolazione della presa del cemento portland. Quest’ultimo è sostanzialmente costituito da due componenti: il clinker, che deriva dalla cottura delle materie prime e che contiene una miscela di silicati e alluminati (C3S, C2S, C3A e C4AF), ed il gesso (CaSO4•2H2O) che viene aggiunto, in misura di circa il 5%, nel mulino di macinazione del cemento. In assenza di gesso, il clinker (ed in particolare un suo componente molto reattivo: il C3A) provocherebbe una presa così rapida (subito dopo la miscelazione con acqua) da rendere impraticabile il trasporto del calcestruzzo. La presa rapida è associata alla trasformazione del C3A in lamine esagonali di alluminati di calcio idrati C-A-H (Fig. 1).La funzione del gesso è quella di reagire proprio con il C3A in presenza di acqua provocando il deposito di ettringite (in forma di una pellicola che avvolge la superficie del C3A) ed arrestando momentaneamente, o comunque ritardando fortemente, l’ulteriore idratazione del C3A e la formazione di C-A-H. Il risultato di questo processo, altamente positivo, è quello di far avvenire la presa del cemento in un tempo più lungo (almeno un’ora) e di consentire le operazioni di miscelazione, di trasporto, e di getto del calcestruzzo in tutta tranquillità. Per comodità definiremo primaria questa ettringite che si forma nella fase della presa del cemento. La formazione della pellicola di ettringite – che in realtà è assimilabile ad un feltro di minutissimi cristalli aghiformi – è però accompagnata da un aumento di volume, derivante dal fatto che l’ettringite è più voluminosa rispetto ai prodotti (C3A, acqua e gesso) che la generano.Se la formazione di ettringite è limitata e si esaurisce in breve tempo, cioè se si manifesta all’interno di un sistema deformabile (come è il calcestruzzo soprattutto nella fase plastica nelle prime ore di vita), allora l’incremento di volume, oltre ad essere modesto, non provoca sostanzialmente tensioni all’interno del materiale. Se, invece, la formazione di ettringite fosse abbondante e si protraesse per molto tempo (quando ormai il calcestruzzo è diventato molto rigido), allora l’aumento di volume potrebbe provocare pericolose tensioni con conseguenti fessurazioni dei manufatti cementizi.Questo diverso comportamento (assenza o meno di fessurazioni) è in qualche modo assimilabile a quello di un contenitore, pieno d’acqua, posto in un congelatore: la formazione di ghiaccio, anch’essa accompagnata da aumento di volume, provoca la fessurazione di un contenitore rigido in vetro, ma non di un contenitore deformabile in gomma. In pratica, per assicurare che la formazione di ettringite non provochi tensioni pericolose all’interno di un calcestruzzo rigido, occorre limitare il quantitativo di gesso aggiunto in macinazione allo stretto indispensabile, per la regolazione della presa, in modo tale che la formazione stessa di ettringite si esaurisca nel minor tempo possibile (al massimo entro un giorno) e sia comunque in quantità limitata.Fig.1 – Meccanismo di azione del gesso nel regolare la formazione di ettringite primaria.
Ciò comporta, però, che buona parte del C3A rimanga – per difetto di gesso – al di sotto della pellicola di ettringite. Questo C3A residuo completerà successivamente, quando ormai il calcestruzzo è stato messo in opera, la sua conversione in C-A-H per lenta diffusione dell’acqua attraverso la pellicola superficiale di ettringite. Il quadro ora descritto (che riguarda il controllo della presa del cemento e quindi la possibilità pratica di gettare il calcestruzzo entro tempi ragionevolmente lunghi) lascia, tuttavia, aperta una possibilità di rischio.Tabella 1 – Sequenza degli eventi per la formazione di ettringite secondaria.
a) Ingresso dall’ambiente nel calcestruzzo di ioni solfatici (SO4-2); | ||||
b) Reazione dello ione SO4= con la calce presente nel calcestruzzo e formazione di gesso: | ||||
SO4-2 | + Ca(OH)2 | acqua======> | CaSO4·2H2O + 2OH | [1] |
(Calce) | (gesso) | |||
c) Reazione del gesso di neo-formazione con gli alluminati idrati del cemento (C-A-H) e produzione di ettringite secondaria: | ||||
Ca SO4·2H2O + C-A-H | acqua======> | 3CaO·Al2O3·3CaOSO4· 32H2O | [2] |
Il rischio consiste nel fatto che la formazione di nuova ettringite, che definiremo secondaria, possa essere ri-alimentata a seguito di ulteriore gesso formato in situ per ingresso di solfati provenienti dall’ambiente. E’ questo tipo di ettringite (cioè quello formato a tempi lunghi per interazione del materiale con l’ambiente, ed in particolare tra il C-A-H del calcestruzzo in servizio con il solfato ambientale) che può provocare danni severi sotto forma di fessurazioni, delaminazioni e distacchi del calcestruzzo (Fig. 2). Questo tipo di degrado è noto con il nome di attacco solfatico ed è associato principalmente (ma non solo) con la formazione di ettringite secondaria.Fig. 2 – Degrado di un canale per attacco solfatico delle acque e formazione di ettringite secondaria.Semplificando, l’attacco solfatico – che porta alla formazione di ettringite secondaria – può essere schematizzato con la successione di tre eventi (a, b, c) come è mostrato in Tabella 1.Come si può vedere, la formazione di ettringite secondaria all’interno del calcestruzzo in servizio, quando è esposto in un ambiente solfatico, richiede la sequenza di tre eventi (a, b, c). Da un punto di vista pratico, per impedire o almeno attenuare il degrado del calcestruzzo per effetto dell’attacco solfatico, è necessario bloccare almeno uno, possibilmente due, e preferibilmente tutti e tre gli eventi che portano alla formazione di ettringite secondaria.a) Impedire l’ingresso del solfatoIl modo più efficace per prevenire l’attacco solfatico consiste nel bloccare l’evento a, cioè nell’impedire che il solfato ambientale entri nel calcestruzzo.E’ evidente, infatti, che se il solfato non penetra nel calcestruzzo non possono verificarsi né il secondo evento (formazione di gesso), né tanto meno il terzo (formazione di ettringite). Ci sono due metodi (A e B), in pratica, per predisporre una barriera all’ingresso del solfato – come in qualsiasi altro agente aggressivo ambientale – all’interno del calcestruzzo.A) Il primo metodo consiste nel confezionare un calcestruzzo poco poroso, o comunque caratterizzato da un sistema poroso discontinuo, che impedisca – attraverso la segmentazione dei pori – l’accesso del solfato verso l’interno del materiale: in pratica, per ridurre la porosità ed impedire l’ingresso del solfato, si ricorre all’adozione di bassi rapporti acqua/cemento (a/c) che predispongano, dopo un’accurata stagionatura umida, la formazione di una pasta cementizia impermeabile all’acqua e quindi di fatto impenetrabile dai solfati. In pratica, il vincolo nel non superare un certo rapporto a/c, e creare quindi una efficace barriera all’ingresso dei solfati, dipende dalle entità della forza motrice che sospinge i solfati dall’ambiente dentro il calcestruzzo. Questa forza motrice è tanto più intensa, quanto maggiore è la concentrazione del solfato nell’ambiente. Pertanto, la barriera all’ingresso del solfato deve essere tanto più efficace (cioè il rapporto a/c deve essere tanto più basso), quanto maggiore è la concentrazione del solfato nell’ambiente che circonda il calcestruzzo. Questo principio, che riguarda non solo l’attacco del solfato ma anche quello di altri agenti aggressivi, è alla base di tutte le moderne normative (inclusa quella nazionale UNI 9850 ed europea EN 206). In linea di massima si può dire che il rapporto a/c del calcestruzzo non deve superare il valore di 0.55 quando l’ambiente (acqua o terreno) nel quale si trova il manufatto contiene più di 250 mg di solfato per 1 kg di acqua o di terreno, e deve scendere a valori ancora più bassi (< 0.45) se il contenuto di solfato è maggiore (si consulti per maggiori dettagli l’articolo “Durabilità del calcestruzzo armato” disponibile sul sito www.encosrl.it ? l’ABC del calcestruzzo).B) Il secondo metodo di prevenzione all’ingresso del solfato consiste nel proteggere superficialmente la superficie del manufatto con un rivestimento impermeabile che impedisca l’accesso di acqua nel calcestruzzo (il solfato, anche se presente in un terreno, è comunque sempre veicolato da un mezzo acquoso): questo tipo di prevenzione, che peraltro non sempre può essere realizzato (per esempio nei getti contro terra), presenta l’inconveniente che il rivestimento protettivo può distaccarsi nel tempo a seguito delle escursioni termiche ambientali. Tuttavia, questo provvedimento si rende indispensabile – ove sia attuabile – quando l’attacco solfatico sia già iniziato per carente qualità (eccessiva porosità) del calcestruzzo ormai gettato, o laddove (come prevedono le menzionate norme nazionali ed europee) la elevatissima concentrazione del solfato nell’ambiente (> 6000 mg/kg) richieda un trattamento di impermeabilizzazione superficiale del manufatto in aggiunta all’altro provvedimento che riguarda il rapporto a/c.b) Impedire la formazione di gessoIn aggiunta – e non in alternativa – al metodo a) per impedire l’ingresso del solfato, si può tentare di ridurre la quantità di calce nel calcestruzzo. Conseguentemente diminuisce la quantità di gesso che si forma secondo il processo [1]. Questo accorgimento – comunque raccomandabile, ancorché non cogente in base alla normativa – consiste nell’impiegare cementi d’altoforno (CEM III), pozzolanici (CEM IV) o compositi (CEM V). Questi cementi – grazie alla presenza di pozzolana e/o loppa – riducono significativamente la quantità di calce libera nel calcestruzzo (si consulti l’articolo “Cemento: il cuore del calcestruzzo” disponibile sul sito www.encosrl.it ? l’ABC del calcestruzzo). La diminuzione di calce, e quindi di gesso formato in situ, comporta ovviamente un minor rischio di formazione di ettringite alimentata dal gesso secondo il processo [2] in Tabella 1.Val la pena di precisare che la semplice adozione dei cementi sopra menzionati, non è in grado di assicurare la durabilità del manufatto in assenza di un ridotto rapporto a/c.c) Impedire la formazione di ettringitePer la produzione di ettringite è indispensabile che accanto al gesso – formatosi a seguito del processo [1] – sia presente la fase C-A-H. La riduzione, o la completa eliminazione del C-A-H, impedirebbe teoricamente la produzione di ettringite ancorchè il solfato sia penetrato nel calcestruzzo (evento a) ed abbia reagito con la calce (evento b). Per questo motivo, in passato, si è ritenuto di poter prevenire il degrado da attacco solfatico semplicemente impiegando un cemento povero o privo ci C3A (cemento ferrico) e quindi capace di produrre una quantità rispettivamente minima o nulla di C-A-H. In realtà, anche in assenza di C3A rimangono comunque nel cemento dei componenti vulnerabili – sia pure, rispetto al C3A, in misura minore – al solfato e al gesso. Infatti, anche i prodotti di idratazione del C4AF (un altro alluminato presente nel clinker) sono suscettibili di trasformazione in ettringite, mentre i prodotti di idratazione dei silicati (C-S-H) possono generare, in presenza di gesso, la formazione di thaumasite, un prodotto ancor più devastante dell’ettringite. Pertanto, l’impiego di un cemento a basso tenore di C3A – spesso considerato un cemento di per sé resistente ai solfati – è una opzione raccomandabile (UNI 9858 ed EN 206) in aggiunta agli altri più importanti accorgimenti – in particolare quello di adottare un basso rapporto a/c – per la prevenzione dell’attacco aggressivo soprattutto quando la concentrazione del solfato nell’ambiente supera una certa soglia critica (500 mg/kg per le acque e 3000 mg/kg per i terreni).
Il degrado usuale legato alla formazione di ettringite secondaria è sostanzialmente incentrato sulla interazione di un calcestruzzo (generalmente poroso) e l’ambiente (acqua o terreni) che contiene solfati. A partire dagli anni ‘80 è stato evidenziato – soprattutto nelle traversine ferroviarie in c.a.p. – un singolare tipo di attacco solfatico che si manifesta, in forma di fessurazione, in manufatti situati in ambienti esenti da solfato. Questo tipo di degrado – noto come DEF (Delayed Ettringite Formation) – è in sostanza provocato dalla ritardata formazione di ettringite secondaria generata all’interno del calcestruzzo senza alcun apporto di solfati dall’esterno. Per spiegare questo singolare e straordinario tipo di degrado sono state avanzate più ipotesi le più importanti delle quali sono:l’ettringite primaria (non pericolosa), che si forma al momento della presa, si decompone termicamente se il manufatto è sottoposto a maturazione accelerata ad alta temperatura; per successiva esposizione all’acqua si riforma l’ettringite (secondaria) generando tensioni pericolose in quanto l’espansione, che accompagna la formazione di questa ettringite, si manifesta in un sistema che nel frattempo è diventato molto più rigido;
(ii) il degrado da DEF non sarebbe direttamente imputabile alla formazione di ettringite; il quadro fessurativo sarebbe in realtà provocato da altri fenomeni (reazione alcali-silice, rottura a fatica per sollecitazioni dinamiche in servizio, ecc), mentre gli ioni SO4 -2, Ca +2, Al +3, derivanti dall’ettringite primaria, provocherebbero il deposito di ettringite secondaria in una forma “benigna”: in sostanza il deposito di ettringite secondaria all’interno delle microfessure – provocate da altri eventi precursori – sarebbe l’effetto e non la causa del degrado stesso;
(iii) accanto all’ettringite primaria – che si forma immediatamente per reazione tra C3A, gesso ed acqua – si può formare, a tempi più lunghi, un’ettringite secondaria (o ritardata) anche in un ambiente privo di solfati purché nel clinker sia presente un’eccessiva quantità di solfato proveniente dalle impurità di zolfo presente nei combustibili. Il solfato presente nel clinker – a differenza di quello contenuto nel gesso aggiunto in macinazione per regolare la presa – è lento nel diffondere dal clinker verso la fase acquosa che riempie i pori e le microfessure presenti nel calcestruzzo, e pertanto alimenta la formazione di ettringite quando il calcestruzzo è ormai indurito e rigido e provocando, quindi, microfessurazioni e distacchi.
In favore della terza ipotesi ci sono tre considerazioni:
D’altra parte, se è vero che a partire dagli anni ‘80 è andato aumentando il contenuto di solfato nel clinker, è pur vero che le strutture danneggiate da DEF rappresentano una ridottissima minoranza rispetto alla stragrande maggioranza di strutture integre. Pertanto, debbono esistere altre concause – accanto al maggior tenore di solfato nel clinker – nel determinare il degrado da DEF, la più importante delle quali è l’insorgere di microfessure provocate talvolta dallo stesso processo produttivo. Per esempio, nel caso delle traversine ferroviarie in c.a.p., il livello di sollecitazione provocato dalla precompressione stessa provoca la formazione di microfessure – non rilevabili a occhio nudo, ma evidenziabili con l’ausilio di un microscopio ottico da campo – all’interno delle quali avviene il deposito di ettringite ritardata con conseguente allargamento delle iniziali microfessure e formazione di macrofessure molto pericolose.Secondo un modello olistico – cioè che tenga conto di tutte le varie concause che determinano il degrado da DEF – il fenomeno è imputabile alla coesistenza di tre elementi:
E’ sufficiente prevenire almeno uno di questi elementi per eliminare il rischio di degrado da DEF.Se ciò non avviene, gli ioni SO4-2 provenienti dal clinker diffondono lentamente, insieme agli ioni Ca+2 ed Al+3, attraverso i pori del calcestruzzo saturi di acqua (in ambienti umidi) e depositano l’ettringite secondaria all’interno delle microfessure pre-esistenti (anch’esse sature di acqua) provocandone l’ulteriore allargamento ed innescando il degrado delle strutture.
Una struttura in calcestruzzo fessurata molto spesso non è più in grado di garantire il servizio al quale era stata destinata: per esempio, una trave in calcestruzzo normale, una volta che si è fessurata, non è più in grado di sopportare le sollecitazioni flessionali in servizio. Proprio per questo, da molto tempo, il calcestruzzo normale è stato rinforzato con i ferri di armatura che sopperiscono alle intrinseche deficienze strutturali del conglomerato, ed in particolare alla tendenza di questo materiale a fessurarsi sotto l’azione di sollecitazioni di trazione e flessione neppure rilevanti. Se le armature metalliche hanno risolto brillantemente i problemi strutturali del calcestruzzo quando è sottoposto ai carichi statici e dinamici in servizio, esse non hanno però risolto l’altro problema connesso con la fessurazione: la durabilità della struttura.Val la pena di ricordare che le armature metalliche, sapientemente disposte dal progettista, possono eliminare la frattura ed il conseguente collasso della struttura. Esse possono, inoltre, ridurre l’ampiezza di un’unica macrofessura, che si verificherebbe in un calcestruzzo non armato, in tante microfessure di ampiezza minore. Rimane il fatto, però, che il calcestruzzo, ancorché armato, è suscettibile di fessurarsi, magari in forma di micro anziché di macro-fessure (Fig. 1). Ed è questo il problema, ancora irrisolto, che rimane da affrontare in relazione alla durabilità.La durabilità – cioè la capacità di durare nel tempo, ma non all’infinito, alle aggressioni ambientali – viene oggi convenzionalmente assicurata per non più di 50 anni, purché si adotti un copriferro sufficientemente spesso ed un rapporto acqua/cemento (a/c) sufficientemente basso per impedire agli agenti aggressivi dell’ambiente di entrare all’interno del calcestruzzo, e purché siano rispettate alcune regole fondamentali – spesso, però disattese nella pratica – di assicurare un minimo di stagionatura umida soprattutto dopo una precoce scasseratura (si veda l’articolo “Durabilità del calcestruzzo armato” disponibile sul sito www.encosrl.it è l’ABC del calcestruzzo). Tuttavia, soprattutto in strutture con grande estensione superficiale rispetto alla massa, come si verifica per i pavimenti o le volte sottili, un calcestruzzo non è durabile – anche se confezionato con basso rapporto a/c – se presenta fessure o anche solo microfessure (cioè non visibili a occhio nudo ma rilevabili con microscopio ottico : < 100 mm). Infatti, l’obiettivo di ridurre la macroporosità della matrice cementizia e quindi l’accesso degli agenti aggressivi mediante la riduzione del rapporto a/c, può essere completamente vanificato dalla presenza di fessure o microfessure attraverso le quali gli agenti aggressivi possono penetrare nonostante una densa e compatta matrice cementizia. L’aspetto più preoccupante nell’aggressione ambientale, perpetrata attraverso i cammini preferenziali rappresentati dalle fessure e microfessure, riguarda proprio i ferri di armatura particolarmente esposti al rischio di prematura corrosione per l’ingresso di aria umida, e quindi di un gas che permea facilmente le fessure ma anche le invisibili microfessure. Nel giro di qualche anno l’incipiente corrosione dei ferri prima farà apparire le macchie di ruggine in corrispondenza delle microfessure, successivamente tramuterà le micro in macrofessure ed infine provocherà il distacco del copriferro a causa dell’aumento di volume delle armature per effetto della corrosione promossa dalla carbonatazione. Insomma, il confezionamento di un calcestruzzo di qualità, con un basso rapporto a/c in conformità alle normative, è condizione necessaria, ma non sufficiente per garantire la durabilità di una struttura, soprattutto se l’aspettativa di durabilità va ben oltre i 50 anni previsti dalla normativa europea . Se questa aspettativa si protrae per qualche secolo, come pure sarebbe lecito attendersi per opere di alto valore architettonico e di grande interesse sociale, è assolutamente indispensabile controllare, se non eliminare, il quadro fessurativo e micro-fessurativo del calcestruzzo. Fig. 1 – Fessurazione provocata da escursioni termo-igrometriche
Quali sono le principali cause che determinano nel calcestruzzo un’elevata tendenza alla fessurazione anche in assenza di carichi statici e dinamici in servizio? Sono fondamentalmente due: una scarsa resistenza (Rt) alle sollecitazioni di trazione (st ); un elevato modulo elastico (E) cioè una scarsa deformabilità soprattutto al momento della rottura sostanzialmente fragile.Se una struttura è sollecitata con una tensione (st ) che supera la resistenza (Rt), il calcestruzzo, come ogni altro materiale, si fessura. Ovviamente occorrerà evitare che si verifichi questa diseguaglianza:
st > Rt
Noto il valore di Rt (di solito molto basso: 1-7 N/mm2) si deve fare in modo che le sollecitazioni statiche o dinamiche in servizio non inducano sforzi maggiori di Rt , pena la fessurazione del calcestruzzo. Con più difficoltà, invece, si potrà evitare le insidie che si nascondono nelle deformazioni di origine igrometrica o termica che, se impedite o comunque ostacolate, di fatto si tramutano in tensioni. Si consideri, per esempio, una lastra di calcestruzzo appoggiata su terreno. Si supponga che – per effetto dell’ambiente insaturo di umidità, e del conseguente asciugamento del calcestruzzo – la lastra subisca un ritiro igrometrico ei. Se non esistesse alcun vincolo alla contrazione, se per esempio non ci fosse alcun attrito tra calcestruzzo e terreno, la lastra si accorcerebbe di ei senza alcuna conseguenza negativa. Se, all’opposto, la lastra è del tutto impedita nell’accorciamento, essa è costretta a rimanere nella sua posizione originale sotto l’azione di una tensione di trazione st, calcolabile in prima approssimazione, con la legge di Hooke:
st = E ei [1]
In sostanza, per una data contrazione da ritiro igrometrico (ei ), la tensione di trazione (st), indotta proprio dall’impedimento alla contrazione, diventa tanto maggiore, quanto più alto è il modulo elastico (E) del calcestruzzo.
Fig. 2 – A parità di sviluppo della resistenza meccanica a trazione (Rt), ed a parità di ritiro (ei), la fessurazione avviene sono nel calcestruzzo B dotato di maggior modulo elastico EB, non appena la tensione (st) indotta dal ritiro impedito, supera la resistenza a trazione (Rt)
Due calcestruzzi (A e B), dotati di moduli elastici diversi (EA < EB), ma con stessa resistenza a trazione Rt, (Fig. 2), potrebbero comportarsi – dal punto di vista fessurativo – in modo completamente diverso nei confronti delle tensioni indotte dallo stesso ritiro igrometrico (ei ). Infatti, per il calcestruzzo A, meno rigido, la stA indotta potrebbe risultare inferiore alla resistenza Rt, mentre per il calcestruzzo B più rigido (EB > EA ) la stB indotta potrebbe superare Rt e provocare, quindi la fessurazione del materiale:
stB = EB· ei > Rt > stA = EA · ei [2]
In generale i valori di E, di ei e di st che si riscontrano normalmente nei calcestruzzi dovrebbero portare ad una situazione come quella indicata in Fig. 1 per il calcestruzzo B. In altre parole ci si dovrebbe aspettare una fessurazione indotta da ritiro in quasi tutte le strutture. Poiché, però, fortunatamente ciò non accade, vuol dire che la tensione indotta dal ritiro, calcolata secondo l’equazione [2] è in realtà attenuata da un concomitante fenomeno che riduce di fatto la contrazione da ritiro ei . Questo fenomeno è individuabile nella deformazione viscosa o creep (ec) generata dall’insorgere della stessa tensione di trazione st consistente in un allungamento (ec) e quindi di segno opposto al ritiro. Insomma, se la contrazione ei genera una tensione st, quest’ultima a sua volta produce un rilassamento del materiale attraverso un allungamento viscoso ec di segno opposto ad un allungamento ei . E’ come se l’equazione [2] diventasse:
st = E(ei – ec) [3]
La Fig. 3 riassume i concetti sopra esposti mostrando comparativamente il comportamento del calcestruzzo B: nella ipotesi che ci sia l’allentamento della tensione a causa del creep la fessura non si manifesta. In sostanza, per non avere fessure occorrerebbe un calcestruzzo con alta resistenza, basso ritiro e soprattutto con basso modulo elastico (su una elevata deformazione viscosa, ec, che pure ridurrebbe la tensione di trazione st, è meglio non contare per evitare altri problemi: per esempio rilassamento dello stato di coazione nel calcestruzzo precompresso). Insomma è il sogno di tutti i ricercatori, i tecnologi e i progettisti: inventare, sviluppare ed impiegare un calcestruzzo resistente, ma poco rigido, cioè con modulo elastico così basso da poter praticamente annullare le tensioni di trazione che insorgono per effetto del ritiro igrometrico e della contrazione termica; e più in generale per cancellare le differenze nello stato tensionale che insorgono per effetto delle diverse variazioni dimensionali generate da gradienti igrometrici o termici.Si pensi, per esempio, alla situazione di una struttura esposta alle escursioni termiche ed igrometriche ambientali: queste escursioni, di carattere giornaliero e stagionale, provocheranno una lenta ma progressiva microfessurazione sull’epidermide del calcestruzzo proprio per la sua rigidità e per effetto delle differenze di temperatura e di umidità rispetto agli strati più interni e quindi più protetti dalle escursioni termo-igrometriche. Questo meccanismo, che è alla base della microfessurazione iniziale, è il precursore del degrado a lungo termine, soprattutto nelle armature metalliche protette da un copriferro di inadeguato spessore.
UNA PELLE ELASTICA SUL CALCESTRUZZO RIGIDOPer ritornare al sogno di un calcestruzzo poco rigido, che annullerebbe in un sol colpo gran parte dei problemi della fessurazione e della durabilità a lungo termine, esso è stato in parte risolto impiegando come ingrediente aggiuntivo – oltre a quelli tradizionali (cemento, inerti) – un polimero elastomerico: una sorta di gomma sintetica, dispersa in forma di particelle finemente suddivise in un mezzo acquoso (lattice) da impiegare al posto della normale acqua di impasto. Grazie a questa aggiunta, il modulo elastico del sistema polimero-cemento diventa minore di 1000 N/mm2, contro un valore tipicamente compreso tra 20000 e 40000 N/mm2 per i più rigidi sistemi cementizi tradizionali. Esistono, però, due limiti a questa strategia: il costo elevato del componente elastomerico rispetto agli altri ingredienti tradizionali che ne rende proibitivo l’impiego massiccio nel calcestruzzo; la diminuzione di resistenza meccanica a compressione che accompagna la diminuzione del modulo elastico. Per questo motivo il sistema polimero-cemento è finora impiegato in forma di malta da applicare come rivestimento sottile (circa 2 mm), duttile, flessibile, e capace di impermeabilizzare, come una guaina elastica su misura, il substrato rigido in calcestruzzo. Una delle proprietà maggiormente studiate ed apprezzate per questi rivestimenti elastici è la cosiddetta crack-bridging-ability, cioè la capacità di formare un “ponte” elastico ed integro sulle inevitabili fessure della sottostante struttura in calcestruzzo rigido (Fig. 4). In sostanza, una pelle elastica può sopperire alla rigidità del substrato in calcestruzzo ed alla sua suscettibilità alla microfessurazione causata da carichi statici o dinamici in servizio, oppure indotta dalle variazioni termo-igrometriche dell’ambiente. Un sottile (2 mm) rivestimento flessibile con le caratteristiche elastiche sopra descritte, dovrebbe sempre completare la finitura superficiale di una nuova costruzione in calcestruzzo armato la cui attesa di vita in servizio supera i 50 anni.Fig.3 – Effetto del creep (ec) sull’allentamento della tensione st indotta dal ritiro (ei): la curva della tensione (stB) supera quella della resistenza (Rt) in assenza di creep; la tensione (st), in presenza di creep, si attenua e non si verifica la fessurazione o si verifica a tempi più lunghi.
Fig. 4-Trave armata sollecitata a flessione: le fessure del substrato in calcestruzzo sono coperte dal rivestimento flessibile in superficie.
La formazione di fessure provocate dal ritiro igrometrico è distribuita in forma casuale e irregolare. Esiste, tuttavia, una tecnologia grazie alla quale le fessure possono essere convogliate in forma predeterminata e non pericolosa per l’ingresso degli agenti aggressivi. Questa tecnologia, particolarmente applicata nei pavimenti industriali, si basa sulla protezione del calcestruzzo dalla evaporazione per qualche giorno finché esso non è indurito. Si procede quindi al taglio della superficie della struttura per ridurre lo spessore della sezione di circa un terzo e a sigillare le fessure provocate dal taglio. Quando, a seguito della evaporazione dell’acqua, il calcestruzzo subisce il ritiro igrometrico si verifica la completa rottura nella sezione sottostante il taglio del giunto di contrazione per effetto del minore spessore del calcestruzzo al di sotto del giunto.
Il modo più efficace per eliminare le fessure provocate dal ritiro igrometrico si basa sull’impiego di un composto capace di espandere nel calcestruzzo indurito dove la presenza dei ferri di armatura trasforma l’espansione del calcestruzzo in uno stato di compressione. Uno dei composti espansivi più impiegati a questo scopo è il CaO cotto ad alta temperatura (1000 °C) in modo che la sua trasformazione in Ca(OH)2 per reazione con l’acqua di impasto si completi in circa due giorni quando cioè il calcestruzzo è indurito. Se si impiegasse il normale CaO cotto a 800 °C per produrre la calce idrata la sua espansione si esaurirebbe in poche ore, quando il calcestruzzo è ancora plastico, e quindi non sarebbe capace di instaurare alcuno stato di compressione. Nella pratica il CaO espansivo è associato all’additivo SRA (Shrinkage Reducing Admixture) in modo da incrementare l’effetto espansivo e ridurre il successivo ritiro in modo da mantenere il calcestruzzo in un permanente stato di compressione. Uno straordinario esempio di questa tecnologia è rappresentato dal MAXXI (Museo dell’Arte del XXI secolo) di Roma progettato dall’Architetta Zaha Hadid che prevedeva “onde” piegate e curve di calcestruzzo lunghe centinaia di metri prive di fessure in assenza di giunti di contrazione (Fig. 5).Fig. 5. Vista del MAXXI di Roma
Se il calcestruzzo è un materiale da costruzione, lo deve al processo di idratazione (hydration) del cemento. Cioè a quel complesso sistema di reazioni chimiche tra il cemento e l’acqua, grazie al quale il calcestruzzo si trasforma da una massa inizialmente plastica, e quindi facilmente modellabile, in un materiale rigido e meccanicamente resistente come la pietra. Con il progredire della reazione chimica tra l’acqua e il cemento si manifestano due variazioni di tipo fisico-meccanico:- la prima consiste in una graduale perdita della lavorabilità iniziale del calcestruzzo fresco fino al tempo in cui l’impasto non è più modellabile (presa);- la seconda riguarda il successivo e progressivo aumento nella resistenza meccanica (indurimento).In realtà tra i due processi – presa e indurimento – non esiste soluzione di continuità, nel senso che la consistenza del materiale aumenta progressivamente passando da quella tipica di un fango, a quella di un terreno asciutto, ed infine a quella di una roccia sempre più compatta. Fig. 1 – Andamento schematico degrado di idratazione dei silicati in funzione del tempo.Fig. 2 – Andamento schematico della resistenza meccanica a compressione dei silicati in funzione del tempo.La distinzione tra presa e indurimento attiene più agli aspetti pratici del processo produttivo che non a reali differenze nella cinetica del processo di idratazione: con l’inizio della presa termina (dopo una o più ore) il tempo a disposizione per poter mettere in opera e compattare il calcestruzzo; con l’inizio dell’indurimento (dopo 1 o più giorni a temperatura ambiente) diventa possibile disarmare le casseforme o rendere pedonabile la superficie di una pavimentazione, ancorché le prestazioni della struttura in servizio siano calcolate sulla base della resistenza meccanica a 28 giorni.
Il cemento Portland, – la “madre” di tutti i cementi – è sostanzialmente costituito da clinker e gesso. Anche gli altri cementi sono sostanzialmente basati su questo binomio ancorché possa essere presente uno o più ingredienti accessori (pozzolana, cenere di carbone, loppa d’altoforno, ecc.).Nel clinker (il prodotto della cottura di una miscela di terre calcareo-argillose) sono presenti due silicati di calcio (circa l’80%) e due alluminati di calcio (circa il 20%). In linea di massima, i due alluminati (individuati dalle formule C3A vedi Nota 1 in fondo all’articolo e C4AF) contribuiscono, per reazione con l’acqua, al fenomeno della presa, mentre i due silicati (C3S e C2S) sono determinanti per l’indurimento. Per semplicità di esposizione si esaminerà prima il comportamento dei silicati e dopo quello degli alluminati.
Se il cemento fosse costituito da solo C3S o C2S si registrerebbe un perfetto parallelismo tra il decorso nel tempo della reazione chimica di idratazione (Fig. 1) e quello dello sviluppo della resistenza meccanica (Fig. 2). Si può notare che il C3S, rispetto al C2S, è più rapido sia nel reagire con l’acqua (Fig. 1) sia nello sviluppare la corrispondente resistenza meccanica (Fig. 2). Tuttavia, per entrambi i silicati si registrano una reazione di idratazione ed una resistenza meccanica trascurabili durante le prime ore, così come si registra una pressoché identica resistenza meccanica elevata alle lunghissime stagionature (anni). Naturalmente, il diverso comportamento (chimico e prestazionale) del C3S e del C2S a 1 giorno, a 1 settimana ed a 1 mese dal getto comporta una sostanziale differenza dal punto di vista pratico, ove si pensi all’importanza della resistenza meccanica a pochi giorni dal getto (per rimuovere le casseforme) o a 28 giorni per la determinazione della resistenza meccanica caratteristica sulla quale si basano convenzionalmente i dati progettuali. Da ciò deriva che, in generale, in un cemento Portland la quantità di C3S è molto maggiore rispetto a quella del C2S (circa 3:1), salvo i casi eccezionali in cui le prestazioni a 1 e 28 giorni non sono così importanti (per es. nelle dighe dove si caratterizza il calcestruzzo a 90 o 180 giorni) e nel contempo esistono altre esigenze (ridotto sviluppo di calore) per preferire un cemento con maggior contenuto in C2S che non in C3S.Nella Fig. 1 è riportata la percentuale di C3S o C2S che ha reagito con l’acqua in funzione del tempo. Ma quale è il risultato di queste reazioni di idratazione? In entrambi i casi si formano due tipologie di prodotto: un silicato di calcio idrato (indicato con la sigla C-S-H vedi Nota 2 in fondo all’articolo) e l’idrossido di calcio, Ca(OH)2 indicato anche con la formula CH secondo lo schema di reazione [1]:C2S v1+ H2O =======> C-S-H + CH [1]C3S v2 Fig. 3 – Idratazione schematica del C3S o C2S: subito dopo il mescolamento con acqua (A),inizio della presa (B) e durante l’indurimento (C).In realtà il processo di idratazione [1] avviene con una velocità (v1) minore se si tratta del C2S, e maggiore (v2>v1) se si tratta del C3S. Inoltre, la quantità di calce prodotta per idratazione (CH) è maggiore se riferita all’idratazione del C3S (30-40%) che non a quella del C2S, meno ricco di calcio (10-15%). Tuttavia, la reazione chimica [1], da sola, non è in grado di spiegare perché una pasta di C3S o di C2S (e quindi di cemento Portland) si trasforma gradualmente dalla iniziale massa plastica ad un materiale rigido e duro come una pietra. In realtà, tra i due prodotti della reazione, solo il C-S-H è determinante per l’indurimento, mentre la calce contribuisce in modo trascurabile a questo processo. Il C-S-H, ancorché si presenti in forme particellari diverse, è di natura prevalentemente fibrosa. Con il progredire della reazione [1], le fibre di C-S-H formatesi sui granuli di C3S o C2S adiacenti, prima si toccano e poi si intrecciano tra loro. Nella Fig. 3 sono schematicamente illustrati tre stadi del processo di idratazione: subito dopo il mescolamento quando la reazione non è ancora sostanzialmente partita ed il sistema è relativamente fluido (A); l’inizio della presa quando le fibre cominciano a toccarsi tra loro ed il sistema perde la sua plasticità iniziale (B); l’indurimento in atto quando le fibre, allungatesi per la progressiva idratazione dei silicati, si intrecciano tra loro e provocano l’irrigidimento del sistema.Le microfotografie della Fig. 4 mostrano la situazione reale di una pasta di C3S, al momento della presa e a indurimento avvenuto, così come è rilevabile con l’ausilio del microscopio elettronico a scansione. Si può notare, nella foto della Fig. 4, come tra le fibre esistano micro-cavità diffuse (denominate “pori capillari”) che influiscono negativamente tanto sulla resistenza meccanica quanto sulla durabilità del materiale: maggiore porosità significa maggiore permeabilità, e quindi maggiore penetrabilità del sistema cementizio da parte degli agenti aggressivi. Per ridurre la porosità capillare, e quindi aumentare sia la resistenza meccanica sia la durabilità, si può: ridurre – a parità di cemento (c) – il quantitativo di acqua (a) oppure – a parità di acqua – aumentare il cemento. In entrambi i casi si riduce il rapporto a/c e quindi si predispone un intreccio più densificato delle fibre (Fig. 5).
Sebbene la calce, prodotta per idratazione dei silicati secondo la reazione [1], non contribuisca di per sé allo sviluppo della resistenza meccanica per la sua morfologia non-fibrosa, tuttavia essa giuoca un ruolo altamente positivo da due altri punti di vista:
Il primo aspetto riguarda la possibilità di far contribuire anche la calce al processo di indurimento mediante l’aggiunta di pozzolana o loppa d’altoforno. Quest’ultima e ancor più la pozzolana sono caratterizzate dalla presenza di silice (amorfa) capace di reagire con la calce, prodotta per idratazione dei silicati, e di formare ulteriore C-S-H*:Il C-S-H* formatosi per la reazione pozzolanica (e qui contraddistinto con un asterisco) è cronologicamente “secondario”, rispetto al quello “primario” (C-S-H) che si produce direttamente nell’idratazione dei silicati. Esso si forma, cioè successivamente, a tempi più lunghi, perché la reazione pozzolanica [2] è più lenta del processo di idratazione [1], ma anche perché la sua formazione richiede che prima si accumuli un po’ di calce attraverso la reazione [1]. A seguito della duplice formazione di C-S-H (“primario”) e di C-S-H* (e “secondario”) in una pasta di cemento pozzolanico o d’altoforno stagionata a lungo, il sistema risulta più ricco in materiale fibroso e quindi meno poroso rispetto ad una pasta di cemento Portland a parità di rapporto a/c.Il secondo aspetto, che riguarda la protezione dei ferri di armatura, si basa sulla osservazione che in un ambiente basico, come quello che si produce nell’acqua satura di calce che riempie i pori capillari (pH = 13), il ferro risulta ricoperto da un film di ossido ferrico denso e compatto (passivazione) che lo protegge dalla corrosione (produzione di ruggine in presenza di umidità e ossigeno). Quando per effetto della carbonatazione (neutralizzazione della calce di idratazione da parte della CO2 penetrata dall’aria all’interno del calcestruzzo), il CH è completamente trasformato in CaCO3, il pH scende al di sotto di 9 e viene a mancare l’ambiente fortemente basico indispensabile alla condizione della passivazione dei ferri. Da questo punto di vista, i cementi pozzolanici e d’altoforno – che perdono progressivamente calce per effetto della reazione pozzolanica e produzione di C-S-H* secondario secondo la reazione [2] – sono potenzialmente più a rischio perché gli effetti della reazione pozzolanica si sommano a quelli della carbonatazione, favoriscono la scomparsa della calce e quindi la depassivazione dei ferri. In realtà – a parte i casi in cui si adotti un elevato rapporto a/c (> 0.60) – anche i cementi pozzolanici e d’altoforno si comportano molto bene nella protezione dei ferri dalla corrosione promossa dalla carbonatazione. Ciò dipende sostanzialmente da due situazioni entrambe favorevoli alla conservazione dello strato passivato dei ferri:
Fig. 4 – Pasta del C3S al momento della presa (a sinistra) e dell’indurimento (destra).
Il C3A ed il C4AF (necessari per diminuire la temperatura di cottura del clinker e rendere ragionevolmente basso il costo di produzione del cemento) giuocano un ruolo determinante nelle prime ore di reazione tra acqua e cemento:C4AF v3+ H2O =======> C-A-H [3]C3A v4Fig. 5 -A parità di cemento, il sistema con meno acqua (cioè con il minor rapporto a/c) risulta meno poroso.dove C-A-H è la generica sigla che rappresenta una famiglia di prodotti di idratazione degli alluminati (Calcium-Aluminate-Hydrated): C3AH6, C2AH8, C4AH13, ecc. A differenza di quanto avviene per i silicati (Fig. 1-2), il C4AF e soprattutto il C3A reagiscono rapidamente con acqua (Fig. 6) senza tuttavia contribuire significativamente allo sviluppo della resistenza meccanica se si eccettua un rapido ma piccolo incremento durante le prime ore (Fig. 7).In sostanza alla rapida reazione degli alluminati con acqua (a velocità v3 per il C4AF e v4 per il C3A molto maggiore di quella v1 e v2 dei silicati) si accompagna una immediata perdita di plasticità (presa rapida), senza un rilevante incremento della resistenza meccanica (Fig. 7). Ciò dipende dalla morfologia dei cristalli di C-A-H, prevalentemente basata sulla presenza di lamine esagonali o cristalli cubici, e quindi poco favorevole, come avviene invece per i prodotti fibrosi C-S-H, allo sviluppo della resistenza meccanica. Fig. 6 – Andamento schematico del grado di idratazione degli alluminati in funzione del campo.Fig. 7 – Andamento schematico della resistenza meccanica a compressione degli alluminati in funzione del tempo.
Per ovviare all’inconveniente della presa rapida (< 60 min) – impossibilità a trasportare e gettare il calcestruzzo fresco entro tempi ragionevolmente lunghi – si ricorre all’aggiunta del gesso (CaSO4 · 2H2O) o dell’anidrite (CaSO4) che hanno la specifica funzione di rallentare la velocità di idratazione degli alluminati rispetto a quella del processo [3]:C4AF v3+ H2O+CaSO4·2H2O =======> C3A·3CaSO4·H32 [4]C3A v4Come si può vedere nel processo di idratazione [4], la presenza di gesso o anidrite, come regolatore della presa, modifica non solo la velocità di reazione degli alluminati (v’3<v3; v’4<v4) , ma anche il prodotto della reazione: ettringite (C3A·3CaSO4·H32) anziché C-A-H. In realtà le due modifiche sono tra loro correlate, ancorché la correlazione non appaia esplicitamente dal semplice confronto del processo [3], senza gesso, con il processo [4] con il gesso. L’ettringite che si forma durante le prime ore di idratazione degli alluminati nel cemento è detta “primaria”, per distinguerla da quella “secondaria” che si può formare successivamente in talune sfavorevoli. La formazione di ettringite “primaria” ritarda l’idratazione degli alluminati (eliminando l’inconveniente della presa rapida ed instaurando la presa normale) in quanto si deposita sulla superficie del C3A e del C4AF in forma di pellicola impermeabile (in realtà un feltro fittissimo di fibre) ed impedisce temporaneamente il contatto dell’acqua con il C3A e del C4AF. La quantità di gesso che occorre per regolare la presa del cemento è vincolata – in tutte le normative del mondo – da un limite superiore (3.5% – 4% come SO3 a seconda dei cementi, pari a circa 7-8% di gesso). Infatti, un eccesso di gesso – e quindi di ettringite secondo il processo [4] – potrebbe comportare indesiderati fenomeni fessurativi per l’azione espansiva che accompagna la formazione di ettringite dirompente.Di fatto, la quantità di gesso effettivamente impiegata (gesso optimum) viene individuata sulla base di due fattori: da una parte occorre che il gesso ritardi sufficientemente la presa del cemento; dall’altra la morfologia fibrosa dell’ettringite contribuisce, molto più del C-A-H, allo sviluppo soprattutto iniziale della resistenza meccanica; pertanto la resistenza meccanica del cemento Portland è maggiore di quella del corrispondente clinker, purché l’aggiunta di gesso rimanga al di sotto dei vincoli percentuali sopra menzionati per impedire l’espansione dirompente nel calcestruzzo.Nota 1. Nella chimica del cemento si adottano le seguenti formule abbreviate per individuare i composti chimici: C=CaO; A=Al2O3; F=Fe2O3; S= SiO2; H=H2O. Così la formula C3A sta per 3CaO·Al2O3 (o anche Ca3Al2O6), C3S corrisponde a 3CaO·SiO2 (o anche Ca3SiO5), C3AH6 indica 3CaO·Al2O3·6H2O, CH sta per Ca(OH)2.Nota 2. C-S-H non è in realtà una formula, ma piuttosto un acronimo inglese di Calcium Silicate Hydrated. Il C-S-H include una famiglia di prodotti (talvolta anche non ben individuabili per il loro carattere scarsamente cristallino) quali, per esempio, C3S2H3, C5S6H5, ecc.
L’approccio olistico, (dal greco hólos che significa che significa “tutto”) è stato proposto prima da Idorn (Concrete Progress. From Antiquity to the Third Millennium, Thomas Telford, London, 1997) e poi più estesamente ripreso da Mehta (Durability – Critical Issues for the Future“, Concrete International, Vol. 19, No. 7 July, 1997, pp 27-35.) per indicare una nuova metodologia finalizzata allo studio della durabilità delle strutture in calcestruzzo. Più in generale, l’approccio olistico, cioè integrale, è stato proposto per contrastare l’eccesso di riduzionismo in ogni campo della scienza e della tecnologia, basato sulla pretesa che tutti gli aspetti di una struttura complicata o di un fenomeno complesso (nell’economia come nella medicina, nell’ingegneria come nella biologia) possano essere compresi riducendoli a parti più semplici. Nel campo del calcestruzzo, con l’approccio riduzionistico si è spesso semplificata la struttura reale riducendola in provini e trasformando il complesso ambiente naturale in un ambiente di laboratorio dove si possa far variare un solo parametro per volta a parità di tutte le altre condizioni. Questo procedimento analitico è figlio del moderno pensiero scientifico, e si è rivelato molto utile per lo sviluppo di nuove teorie scientifiche come anche per la realizzazione di tecnologie molto progredite. Tuttavia, l’eccesso di riduzionismo può essere fuorviante nello studio di sistemi molto complessi per i quali l’approccio olistico, basato sull’intuizione, si può rivelare più proficuo. Anzi, secondo Capra (The Turning Point, Batan New Ages Book, 1983.), i due approcci debbono essere considerati complementari.A differenza dell’approccio riduzionistico, che consente di misurare con precisione i parametri studiati e di elaborare talvolta anche un modello matematico per descriverne il comportamento in ben determinate condizioni, l’approccio olistico è necessariamente qualitativo o al massimo semi-quantitativo, ma non per questo meno proficuo o vantaggioso rispetto all’approccio riduzionistico. Per quanto riguarda il calcestruzzo, un paio di esempi potranno essere utili per esaminare i vantaggi dell’approccio riduzionistico o di quello olistico per affrontare i vari problemi.
Il primo esempio riguarda lo studio della resistenza meccanica a compressione (Rc). Come è noto, Rc dipende, oltre che dal rapporto acqua/cemento (a/c), da molti altri parametri: grado di compattazione del calcestruzzo dentro i casseri, temperatura e umidità relativa della stagionatura, tempo di maturazione, forma geometrica e dimensione dei provini, tipo e classe di cemento, e porosità degli aggregati lapidei. Per semplificare un così complesso sistema, con un approccio riduzionistico occorre ridurlo in parti più semplici facendo variare, per esempio solo a/c e misurando Rc mantenendo costanti tutti gli altri parametri. Qualcosa del genere dovette fare Abrams per ricavare la famosa legge che porta il suo nome:Rc = K1/K2/a/c [1]dove K1 e K2 sono due costanti che dipendono da tutti gli altri parametri tenuti costanti (tempo di rottura, temperatura di stagionatura, tipo di cemento, forma geometrica dei provini, ecc.). Per arrivare all’equazione [1] o altre simili, si può cominciare a preparare in laboratorio una serie di calcestruzzi con lo stesso tipo di cemento dove l’unico parametro variabile è il valore di a/c e procedere quindi ad una completa e costante compattazione del calcestruzzo fresco, ad una stagionatura umida sempre a 20°C, ad una rottura a compressione dei provini cubici sempre a 28 giorni. Quindi, nota la resistenza Rc per ogni valore di a/c, si potranno ricavare le costanti K1 e K2 oppure si potrà rappresentare graficamente l’equazione [1] a 28 giorni (Fig. 1).
Fig. 1 – Influenza del rapporto acqua-cemento (a/c) sulla resistenza caratteristica (Rck) del calcestruzzo con CEM II B/L 32.5R.
Ripetendo l’esperienza alla stessa temperatura, impiegando lo stesso cemento, e rompendo i provini ad un’altra stagionatura – per esempio a 7 giorni – si potranno calcolare altri valori di K1 e K2. Procedendo in questo modo ad altre stagionature (per esempio 1 e 3 giorni) sarà possibile offrire un quadro più completo della correlazione Rc – a/c a tempi diversi ma riferiti alla stessa temperatura, stesso cemento e stesso grado di compattazione. Per le strutture reali, però, difficilmente si conoscono il grado di accuratezza adottato nel compattare il calcestruzzo gettato nei casseri, la temperatura effettiva (tra l’altro mai costante, ma variabile di giorno in giorno in base al clima ed al calore di idratazione sviluppato inizialmente). Pertanto, l’equazione di Abrams non può essere molto precisa per predeterminare la Rc del calcestruzzo nelle strutture reali, noti i valori di acqua e cemento immessi in betoniera o, al contrario, per calcolare il valore di a/c adottato in base alla misura della Rc su una “carota” estratta dalla struttura. Tutto ciò non significa però che uno studio affrontato con l’approccio riduzionistico sia di scarsa utilità, ma piuttosto che i risultati ottenuti non possano essere estrapolati al di fuori delle limitazioni entro le quali furono ricavati.Per tornare all’equazione di Abrams [1], si possono segnalare almeno due utili applicazioni pratiche. La prima riguarda la necessità di controllare la qualità del calcestruzzo, ed in particolare la sua resistenza meccanica, attraverso la misura di Rc non già sulle strutture, ma su provini di geometria nota, compattati a rifiuto, e stagionati a temperature e per tempi ben standardizzati (20°C e 28 giorni). Solo in questo modo il valore di Rc è significativo ed esprime la potenziale qualità del calcestruzzo utilizzato in cantiere sulla base di precise prescrizioni: esso è utile, quindi, per regolare le forniture del produttore di calcestruzzo all’impresa, ma non può essere esteso, salvo eccezioni, al controllo della resistenza del calcestruzzo delle strutture. La seconda applicazione, molto più utile per il progresso tecnologico, riguarda l’insegnamento derivante dalla legge di Abrams: una volta noto l’importante ruolo giuocato da a/c, si è compresa l’importanza di controllare l’acqua introdotta nell’impasto (compresa quella derivante dall’umidità degli aggregati dalla cui variabilità può dipendere molto la scarsa riproducibilità dei risultati di Rc). Inoltre, dalla legge di Abrams deriva tutta la ricerca che ha portato all’invenzione ed allo sviluppo di additivi sempre più efficaci nel ridurre l’acqua di impasto, e conseguentemente il valore di a/c, senza penalizzazione della lavorabilità.
Il secondo esempio riguarda lo studio della durabilità delle strutture reali (travi, pilastri, solette, ecc.) che risulta essere molto più complesso di quello affrontabile in laboratorio. Quest’ultimo viene studiato necessariamente con un approccio riduzionistico preparando alcune serie di provini per ciascuna delle quali si fa variare un solo parametro; (per esempio a/c, oppure il tipo di cemento, oppure la temperatura di esposizione, oppure ancora la concentrazione di agente aggressivo). Questo approccio semplifica lo studio perché consente di determinare l’influenza di ciascun parametro sulla durabilità a parità di tutte le altre condizioni.Tuttavia, occorre estendere con molta prudenza i risultati ottenuti con l’approccio riduzionistico alle strutture reali. Per esempio, sovente si verifica che due parti molto prossime nella stessa struttura – quindi a parità di a/c, di compattazione, ed apparentemente di tutti gli altri parametri – presentino comportamenti di durabilità molto diversi tra loro, difficilmente interpretabili sulla base del solo studio riduzionistico di laboratorio. L’approccio olistico, basato soprattutto sull’osservazione comparativa ed acuta delle strutture reali danneggiate e di quelle integre della stessa opera, consente invece di arrivare ad una comprensione intuitiva del fenomeno ancorché difficilmente modellabile in termini quantitativamente analitici.La Fig. 2 illustra in modo sintetico e semi-quantitativo i principali parametri responsabili del degrado di una struttura in calcestruzzo armato (4). Questi parametri sono raggruppabili in tre categorie:– porosità del materiale– umidità delle strutture– esposizione ad ambiente aggressivoFig. 2 – Approccio olistico al degrado: occorre la coesistenza di umidità, di porosità del materiale e di agenti aggressivi nell’ambiente perché si manifesti il degrado (area rossa).Ciascuna categoria di parametri è rappresentata da un cerchio in Fig. 2. Solo quando tutte e tre le categorie coesistono, alternativamente o continuamente, si può manifestare il degrado: questa situazione corrisponde alla sovrapposizione dei tre cerchi ed è rappresentata dalla zona centrale del diagramma ternario di Fig. 2. La sovrapposizione di soli due cerchi che corrisponde alla coesistenza di due categorie di parametri, per esempio ambiente umido ed aggressivo per presenza di solfati, non comporta alcun rischio di degrado per la mancanza della terza categoria di parametri, cioè della porosità del calcestruzzo. Naturalmente, ancora meno probabile è il rischio di degrado in presenza di una sola categoria di parametri: per esempio calcestruzzo poroso in ambiente asciutto e privo di agenti aggressivi.Nella Fig. 2 sono anche mostrati i vari parametri appartenenti a ciascuna categoria. Per esempio, la porosità del calcestruzzo include un numero significativo di parametri che possono influenzare direttamente o indirettamente la porosità: non solo il valore di a/c che, come è noto dalla teoria di Powers, influenza la porosità capillare (1-100 mm) della matrice cementizia; ma anche una carente stagionatura umida iniziale, l’esposizione alle escursioni igro-termiche dell’ambiente che possono provocare la formazione di microfessure (100-300 mm) attraverso le quali l’acqua ambientale può penetrare trasportando gli agenti aggressivi ed aggirando una matrice cementizia anche poco porosa per il basso valore di a/c. Ed ancora: uno scarso grado di compattazione del calcestruzzo nella struttura reale, in relazione ad un impasto segregabile, poco lavorabile e/o poco vibrato (si veda l’articolo “Lavorabilità del calcestruzzo fresco: influenza sul calcestruzzo in servizio” disponibile sul sito www.encosrl.it è l’ ABC del calcestruzzo:), può provocare la presenza di macrovuoti (1 mm – 1 cm), talvolta fino alla formazione di vistosi “vespai”, che ovviamente facilitano l’ingresso dell’acqua e degli agenti aggressivi anche in calcestruzzi confezionati con basso a/c e ben stagionati a umido.Per quanto riguarda l’aggressività dell’ambiente ci si può limitare all’elenco degli agenti aggressivi più frequentemente riscontrabili e previsti dalla normativa europea (si consulti l’articolo “Durabilità del calcestruzzo armato” sul sito www.encosrl.it è l’ABC del calcestruzzo:): solfati, cloruri, alcali, ossigeno, anidride carbonica, ghiaccio, tenendo presente che molto spesso questi fattori agiscono contemporaneamente con effetti talvolta sinergici (1 + 1 = 3).
L’acqua, infine, giuoca un ruolo determinante innanzitutto nel trasporto degli agenti aggressivi dall’ambiente verso i singoli componenti delle strutture (armature metalliche, pasta cementizia ed aggregati), e, nel caso di ambienti molto freddi (< 0°C), essa stessa diventa l’agente aggressivo attraverso la formazione di ghiaccio. Ma l’aspetto più complesso, nel ruolo giuocato dall’acqua, riguarda la presenza continua o intermittente che, a seconda dello specifico meccanismo di degrado, può diventare l’elemento determinante per promuovere o bloccare il fenomeno del deterioramento delle strutture. Per esempio, nel caso della corrosione dei ferri di armatura promossa da carbonatazione è essenziale che il calcestruzzo sia esposto alla presenza intermittente dell’acqua (Fig. 3) per favorire, nei periodi asciutti il trasposto dell’aria. Questa con la presenza di anidride carbonica (CO2) neutralizza la calce e con la presenza di ossigeno (O2) alimenta la formazione di ruggine. In strutture permanentemente immerse in acqua, invece, il fenomeno della corrosione è di fatto bloccato per la difficoltà dei gas CO2 e O2 a diffondere attraverso il copriferro satura di acqua.
Fig.3 – Struttura in calcestruzzo armato con espulsione del copriferro a seguito della formazione di ruggine (più voluminosa dell’acciaio) sulla superficie delle armature metalliche corrose per carbonatazione.
Fig.4 – Fessurazione da reazione alcali-aggregato in un pavimento di calcestruzzo.
Al contrario, nel caso del degrado dovuto, per esempio, alla reazione alcali-aggregato (Fig. 4) la presenza continua di umidità accelera il decorso del fenomeno purché, ovviamente, siano presenti le altre due condizioni indispensabili al decorso del processo: silice reattiva negli aggregati ed elevata concentrazione di alcali nel calcestruzzo (espressi come Na2Oeq* > 2 Kg/m3). Quest’ultima situazione può essere determinata da un eccessivo contenuto di sodio e potassio all’interno del calcestruzzo (cemento con Na2O > 0.6%) oppure dall’esposizione del calcestruzzo in servizio ad un ambiente esterno ricco di alcali, come avviene per esempio nelle pavimentazioni esposte a salatura (con NaCl) nei periodi invernali per sciogliere il ghiaccio.Una situazione analoga si presenta nell’attacco solfatico con formazione di ettringite: esiste la possibilità che il solfato provenga dall’ambiente esterno (terreni o acque solfatiche) al quale il calcestruzzo è esposto (Fig. 5), oppure che esso sia presente all’interno stesso del calcestruzzo per il lento rilascio (Fig. 6) da uno dei suoi ingredienti solidi (aggregati o cemento). L’attacco solfatico interno, più noto con il nome di DEF (Delayed Ettringite Formation), si è manifestato solo recentemente (anni ’80 e ’90) ed ha colpito in modo particolare alcune tipologie strutturali (traversine ferroviarie in c.a.p.) piuttosto che altre.
Fig.5 – Distacco superficiale del calcestruzzo delle pareti di un canale bagnato da acque solfatiche.
Fig.6 – Esempio di attacco solfatico interno (DEF) nel calcestruzzo di una traversina in c.a.p.: l’eccessivo stato di coazione provoca le microfessure e promuove l’attacco solfatico.
Proprio adottando l’approccio olistico (“Damage by Delayed Ettringite Formation., A Holistic Approach and New Hypothesis“, Concrete International, Vol. 21, No.1, January, 1999, M. Collepardi, pp 69-74) tenendo conto cioè dei vari parametri progettuali, produttivi, composizionali ed ambientali (sollecitazioni a fatica in servizio, microfessure provocate dalle sollecitazioni di precompressione, tipo di cemento impiegato, ciclo termico di maturazione accelerata a vapore, ecc.) è stato possibile risalire alle possibili cause di degrado provocate dall’attacco solfatico interno e le ragioni per le quali le traversine ferroviarie sono più vulnerabili all’attacco solfatico rispetto ad altre strutture (www.encosrl.it è ABC del calcestruzzo :”Ettringite: Dr Jekyll e Mr. Hyde”).*NOTANa2Oeq=alcali totali espressivi come Na2O equivalente = Na2O + 0.66K2O
La tecnologia del calcestruzzo. Il Prof. Mario Collepardi ci descrive la pozzolana e la sua storia. Le informazioni sono tratte dal libro “Il nuovo calcestruzzo” acquistabile al seguente link www.encosrl.it/libriEcco del materiale tratto da libro “Il nuovo calcestruzzo”1.3.5.1 Il Pantheon di RomaOltre ad essere un capolavoro dell’architettura mondiale, per la bellezza della forma, l’arditezza della tecnica costruttiva, l’illuminazione straordinaria all’interno del monumento, è la costruzione dell’antica Roma conservatasi più intatta fino ai giorni nostri. Non è possibile citare al mondo un’opera in calcestruzzo più durabile del Pantheon. Fu costruito in soli 7 anni con Adriano Imperatore dal 118 al 125 d.C. edifi cando una cupola semisferica su una precedente costruzione eseguita circa un secolo prima da Marco Vipsanio Agrippa, come appare scritto sul frontone del portico.
L’arditezza della costruzione sta soprattutto nella cupola in calcestruzzo del diametro record di 43,4 m (più grande di quello della cupola della Basilica di San Pietro) costruita con sabbia ordinaria ed inerti leggeri naturali (pomice) legati con calce e pozzolana. La cupola, che poggia su una struttura circolare in mattoni spessa 6 m, è stata realizzata gettando entro casseforme in legno un calcestruzzo sempre più le
ggero con massa volumica decrescente dal basso verso l’alto grazie al diverso rapporto pomice/sabbia. Nella parte bassa si conficcavano nella malta pezzi di travertino o mattone successivamente battuti con mazze metalliche mentre nella parte più alta si impiegavano anche anfore vuote per alleggerire – unitamente all’impiego della pomice – il calcestruzzo. Ciò ha consentito, tra l’altro, di realizzare l’ardito progetto di costruire una struttura perfettamente semi-sferica (essendo l’altezza della cupola terra uguale a 21,7 m, cioè metà del diametro) con lo spessore della cupola che si riduce da 6 a 1,2 m in corrispondenza dell’apertura circolare (oculus) con diametro di 8,7 m nella sommità. 1.3.5.2 Pont du Gard a Nimes
Pont du Gard a Nimes, in Francia, l’antica Nemansis dei Romani, faceva parte di un acquedotto che portava l’acqua dalla sorgente di Uzès fi no alla città di Nimes per oltre 50 Km per lo più attraversando zone interrate. Sono due gli aspetti che più colpiscono questa opera dell’ingegneria idraulica ed architettonica al tempo stesso costruita da Marco Vipsanio Agrippa all’epoca dell’imperatore Augusto (2-19 d.C.): 1) la incredibile precisione nella pendenza dell’acquedotto che doveva trasportare per gravità l’acqua da Uzés a Nimes per 50 km contando solo su un dislivello di 17 m, pari cioè ad una pendenza di 1 m ogni 3 km, cioè dello 0,3‰. Per la realizzazione di questo obiettivo gli ingegneri Romani attraversarono colline scavando in sotterraneo e costruirono il ponte che attraversava il fi ume Gard al fi ne di mantenere quella minima pendenza dello 0,3‰ capace di garantire il fl usso dell’acqua per gravità; 2) la bellezza artistica del ponte che presenta un’altezza di 49 m per una lunghezza di 273 m; il ponte attraversa il fi ume con 4 arcate al piano inferiore (con una luce di 24,5 m ed uno spessore di oltre 6,36 m per resistere alla corrente del fi ume), sette arcate al piano intermedio (con uno spessore minore di 4,54 m) e 35 arcate nel piano superiore (con uno spessore ancora minore di 3,06 m) sopra le quali scorre l’acquedotto vero e proprio .Pont du Gard è un altro esempio di capolavoro ingegneristico ed architettonico costruito per durare a lungo. Non subì, infatti, degrado grazie all’impiego di malta pozzolanica che rivestiva la
superfi cie interna dell’acquedotto. Tuttavia nel Medioevo fu impropriamente utilizzato come ponte stradale, per il quale non era stato costruito, e si verifi carono preoccupanti fessure alla base del secondo piano di archi. Il dissesto fu riparato nel XVIII secolo riportando il monumento alla sua architettura originale ed affi ancandolo con un ponte stradale senza modifi care l’aspetto del Pont du Gard come costruito dai Romani. 1.3.5.3 Porto di Cosa Cosa è una località sul Mar Tirreno in Toscana, in prossimità del Monte Argentario. Nell’antichità il suo porto (Fig. 1.14), costruito dai Romani (Portus Cosanus), svolse un ruolo di grande importanza per l’attività della pesca (A.M. Mc Cam, “The Roman Port and Fishery of Cosa – A center of Ancient Trade”, Princeton University Press, Princeton, New Jersey, USA, 1987, pp 347).
Nell’area del porto di Cosa esistono ancora alcune antiche strutture destinate in passato a diverse funzioni. La più grande di queste strutture, attualmente tutta sommersa dall’acqua di mare, fungeva da frangifl utti. Su questa struttura, furono costruiti due dei cinque grandi moli in calcestruzzo ancora esistenti a distanza di oltre due millenni. Inoltre, tre muri in terrapieno (due dei quali a struttura poligonale) si spingevano dalla costa verso il mare per alcuni chilometri. L’insieme di queste costruzioni formava un ingegnoso sistema di canali che collegavano al mare la laguna naturale riservata all’allevamento dei pesci. Certamente, da un punto di vista squisitamente estetico, ciò che rimane di quelle strutture è di secondaria importanza soprattutto in un paese come l’Italia così – 18 – Fig. 1.14 – Vista del plastico ricostruito del porto di Cosa Fig. 1.13 – L’acquedotto sul Pont du Gard ricco di straordinarie costruzioni, talvolta ancora integre come il Pantheon. Ciò che rimane delle strutture portuali di Cosa è ben poco per l’abbandono delle attività originali nei secoli successivi. In un interessante articolo il canadese T. W. Bremner (“Una “Cosa” molto antica”, disponibile su www.enco-journal. com ? Archivio: il meglio di Enco Journal ? L’Antico) ha esaminato alcuni aspetti riguardanti la scelta dei materiali e la straordinaria durabilità del materiale delle strutture di Cosa che possono essere sicuramente catalogate nella categoria dei calcestruzzi leggeri a prolungata durabilità. I cinque moli in calcestruzzo (larghi 7 m, lunghi 5 m ed alti 5 m) furono costruiti nel 237 a.C.; nella costruzione di questi moli si possono riconoscere due tipi di calcestruzzo, entrambi a base di calce-pozzolana come legante, ed entrambi con aggregati leggeri: nello strato inferiore del calcestruzzo, parzialmente sommerso in acqua, furono impiegati, come aggregati naturali leggeri, tufi provenienti da un’area vulcanica a 60-80 km a nord-est di Cosa; nel calcestruzzo dello strato superiore, tutto fuori acqua, furono impiegati, come aggregati artifi ciali leggeri, rottami di anfore (Fig. 1.15), presumibilmente scarti di lavorazione di un impianto locale per la produzione di contenitori ceramici destinati al trasporto del vino.L’impiego di aggregati leggeri – naturali o artifi ciali – fu tenuto in grande conto dai costruttori Romani per ridurre i carichi in servizio derivanti dal peso proprio della struttura (si pensi al
Pantheon) o, come per il Porto di Cosa, per alleviare la fatica nel trasporto e messa in opera dei materiali. Inoltre, dallo studio dei calcestruzzi del Porto di Cosa emerge un altro importante aspetto della civiltà dei Romani: la capacità di riciclare materiali di scarto di altre lavorazioni (nel caso specifi co rottami di anfore) per la costruzione di opere durabili, un tema questo di grande attualità nel mondo moderno dove spesso si invocano durabilità e sostenibilità senza però spesso metterle in atto. Un’altra importante considerazione sulla scelta dei materiali riguarda l’origine della pozzolana impiegata nelle strutture del Porto di Cosa: un esame comparato (eseguito, secondo Bremner, dall’Università della Pennsylvania) sulla pozzolana presente nei moli del Porto di Cosa e su quella utilizzata nelle costruzioni di Pozzuoli ha evidenziato che si tratta di materiale lavico proveniente dalla stessa area. Si deve quindi concludere che i costruttori del Porto di Cosa non si fermarono davanti alle diffi coltà di un trasporto per alcune centinaia di chilometri, da Pozzuoli a Cosa, per utilizzare quella pozzolana che già a quell’epoca godeva fama di materiale indispensabile per le opere a lunga durabilità. La straordinaria durabilità a lungo termine delle strutture in calcestruzzo a base di calce-pozzolana riceve una conferma dalle opere portuali di Cosa: i moli, pur essendo continuamente immersi in acqua marina ed esposti alle sollecitazioni fortemente abrasive derivanti dal moto ondoso in presenza della sabbia e della ghiaia della costa, hanno conservato sostanzialmente le dimensioni originali dopo oltre 2000 anni dalla loro costruzione.1.3.6 DURABILITÀ E SOSTENIBILITÀ NELLE COSTRUZIONI DEI ROMANI L’analisi di tre costruzioni appartenenti all’architettura (come il Pantheon), all’ingegneria idraulica (come l’acquedotto sul Pont du Gard) ed all’ingegneria marittima, come i resti del Porto di Cosa, mettono in evidenza che i Romani, abilissimi architetti e costruttori, misero in atto le seguenti regole: a) impiegare materiali durabili (per esempio pozzolane vulcaniche naturali o artifi ciali come il cocciopesto); b) alleggerire le strutture con materiali (tufo ed anfore) in relazione ai carichi statici (Pantheon e Pont du Gard) ed alla loro messa in opera (Porto di Cosa); c) recuperare dalle costruzioni demolite i mattoni per produrre pozzolane artifi ciali, cocciopesto) e scarti di altre lavorazione (rottami di anfore) per una intelligente allocazione dei rifi uti di altre lavorazioni; d) trasportare anche a lunga distanza (per esempio via nave da Pozzuoli a Cosa) materiali pozzolanici necessari a garantire la durabilità dell’opera.
“E’ un edificio che si relaziona in modo vivace con i volumi della città. E’ come un Guggenheim srotolato in percorsi di spazio continuo (…) un edificio di cui si parlerà ancora nella storia dell’architettura dei prossimi 50 anni” – World Architecture Festival, Barcellona 2010 Così la giuria del World Architecture Festival nel 2010 ha motivato il riconoscimento come miglior edificio dell’anno al Museo Nazionale delle arti del XXI secolo, prima opera progettata da Zaha Hadid (Premio Pritzker 2004) in Italia. L’edificio è stato commissionato dal Ministero Italiano delle Arti e controllato dal Ministero Italiano delle Infrastrutture. L’edificio è stato realizzato da Italiana Costruzioni S.p.a.Il mix-design dello speciale calcestruzzo è stato messo a punto dal Prof. Mario Collepardi. Le sfide per la realizzazione del Museo erano tre: la necessità di avere strutture architettoniche imponenti e curvilinee prive di difetti e eliminazione delle tipiche giunture che caratterizzano i blocchi di calcestruzzo, richieste espressamente da Zaha Hadid e le problematiche legate alla stagionatura del calcestruzzo una volta rimossi i casseri, espresse dall’impresa. La carta vincente che ha messo d’accordo tutti è stata la messa a punto nei laboratori ENCO, sotto la direzione del Prof. Mario Collepardi, e nel Centro Innovazione di Italcementi, di una soluzione che ha costituito una novità nel panorama edile italiano: un calcestruzzo contenente tre additivi che garantissero contemporaneamente capacità auto-compattanti (Self-compacting), corretta compressione (Self-compressing) e adeguata autostagionatura (Self-curing). La fluidità della miscela ha facilitato la costipazione senza interventi di vibrazione. La nuova soluzione è stata chiamata 3-SC.Per maggiori informazioni sulla soluzione 3-SC consultare la presentazione sul calcestruzzo per costruzioni complesse di difficile esecuzione.
A un anno dalla sua improvvisa scomparsa il MAXXI dedica all’Arch. Zaha Hadid la mostra “L’Italia di Zaha Hadid“. L’esposizione intende evidenziare l’intenso e duraturo rapporto dell’Architetto con l’italia, presentando i progetti e le opere realizzate attraverso i vari strumenti di rappresentazione, ricerca e sperimentazione messi a punto nel corso della sua carriera: dai bozzetti pittorici e concettuali ai modelli tridimensionali, dalle rappresentazioni virtuali agli studi interdisciplinari più recenti finalizzati all’applicazione di nuove soluzioni e tecnologie, in uno sforzo pionieristico di indagine nella progettazione. Tra i progetti italiani della Hadid, il Terminal Marittimo di Salerno, il Messner Mountain Museum a Plan de Corones, il progetto City Life (quasi completato) a Milano e, naturalmente il MAXXI, di cui sono esposti anche i primi bozzetti.L’italia di Zaha Hadid a cura di Margherita Guccione, Woody Yao, dal 23 giugno 2017 al 14 gennaio 2018.
Le Giornate Nazionali sulla Corrosione e Protezione tornano dopo 21 anni a Milano, dal 28 al 30 giugno 2017, presso la sede del Politecnico di Milano. Giunte alla loro dodicesima edizione, le Giornate si sono affermate negli anni come uno degli eventi più importanti a livello nazionale per discutere aspetti scientifici, tecnologici e produttivi, nell’ambito della corrosione e protezione dei materiali.Le memorie presentate, verranno suddivise nelle seguenti aree tematiche:
All’interno del Convegno, troveranno spazio i workshop presentati dalle associazioni co-organizzatrici del Convegno, APCE, Centro Inox e NACE:
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