Questo libro è dedicato a chi − a vario titolo − deve occuparsi del restauro delle strutture in calcestruzzo armato (c.a.). Esso riguarda innanzitutto lo strutturista che deve poter intervenire dopo aver valutato tutti gli elementi disponibili, così come avviene nel campo medico quando il clinico o il chirurgo decide la migliore azione da intraprendere dopo aver:
• valutato l’anamnesi del paziente (età, inizio del disturbo, carattere ereditario del malanno, ecc.);
• sottoposto il paziente a visita diretta (palpazione, auscultazione, misura della pressione, ecc.);
• prescritto indagini da eseguire presso centri medici specializzati (analisi del sangue, indagini endoscopiche, ecografia, ecc.);
• visionato i reperti accompagnati dal commento dell’analista che ha eseguito le indagini;
• consultato colleghi specialisti negli specifi ci settori attinenti il quadro clinico del paziente per le tecniche da adottare in eventuali interventi chirurgici o per i medicinali da assumere al fine di una cura farmacologica.
Il degrado è qui inteso come perdita delle iniziali prestazioni a seguito di eventi lenti correlati all’ambiente aggressivo per effetto di agenti naturali (gelo-disgelo, mare, ecc.) o artificiali (ambienti industriali). Non è incluso in questo termine il dissesto delle strutture a seguito di eventi straordinari (sisma, incendio, guerra, ecc.).
Per quanto riguarda le strutture in c.a., la prevenzione del degrado può avvenire adottando materiali e tecnologie ormai consolidate ed evidenziate nelle normative. Per le opere già costruite e degradate, il restauro strutturale
tiene conto dell’esperienza accumulata nei decenni scorsi sia sul decorso del degrado delle opere originali, sia sulle tecnologie innovative per il loro ripristino.
Progettare la prevenzione del degrado coincide di fatto con la progettazione della durabilità delle opere in c.a.. Da questo punto di vista occorre, tuttavia, precisare che, per una corretta progettazione della durabilità, è necessario stabilire quale è il periodo di vita di servizio attesa per l’opera in relazione all’ambiente nel quale le strutture in c.a. dovranno essere erette ed alla funzione che esse dovranno esercitare. Per fare solo un esempio pratico, un tempo di vita di servizio oltre 50 anni per una pista di decollo di un aeroporto nazionale all’interno di una grande città (per esempio quello di Linate a Milano) difficilmente si concilierebbe con il prevedibile cambio di abitudini o con il progresso nel settore dei servizi aeronautici. Al contrario, la durabilità di un’opera quale il Tunnel sotto la Manica o il Ponte sullo Stretto di Messina, devono necessariamente prevedere tempi di vita di servizio secolari. Insomma, il progettista non può prescindere dalla definizione del periodo di vita di servizio attesa nel progettare il modo di costruire opere in c.a. adeguatamente durabili. Inoltre, sempre per rimanere agli esempi sopra menzionati, l’aspetto di interazione ambientale dovrà tener conto di scegliere un calcestruzzo armato resistente al ghiaccio ed agli agenti disgelanti per la pista aeroportuale di Linate, alle infiltrazioni di acque marine nel caso del tunnel sotto la Manica, ed all’acqua di mare a cielo aperto per il Ponte sullo Stretto di Messina (Fig. 1.1). Difficilmente è dato di vedere un progetto della durabilità delle strutture in c.a. nei termini sopra menzionati. Per questo motivo, è destinato a diventare sempre più importante il metodo che si potrebbe definire della durabilità standard, in quanto riferita ad un tempo medio di vita di servizio, per esempio di 50 anni, in ambienti le cui caratteristiche aggressive nei confronti delle strutture in c.a. sono standardizzati: questi ambienti, cui sono esposte le strutture nella loro vita di esercizio, sono definiti classi di esposizione, cioè categorie ambientali, (per es.: costa marina, alta montagna con cicli di gelo-disgelo, ecc.) come quelle previste dalle norme europee EN 206-1 (§ 5.1) o dalle raccomandazioni americane del comitato ACI.
Per ciascuna di queste classi di esposizione ambientale occorre adottare adeguate misure in termini di composizione del calcestruzzo, spessore di copriferro, e modalità esecutive per assicurare, appunto, una durabilità “media”
di 50 anni (1). E’ ovvio che nulla impedisce di adottare misure progettuali ed esecutive più attente e sicure di quelle derivanti dalle categorie standard di esposizione ambientale secondo le normative se si vuole garantire una durabilità più lunga di 50 anni e/o si riconosce che l’ambiente reale cui la struttura in c.a. sarà esposta è più severa di quella identificabile nelle normative.
Le opere in c.a. costruite nel secolo XX presentano, con qualche meritevole eccezione, segni di degrado che rivelano l’assenza – in fase di progetto – di un esame preventivo delle possibili interazioni struttura-ambiente. D’altra parte, la facilità con cui l’impresa può gettare, disarmare ed erigere strutture in c.a., se rappresenta una rivoluzione rispetto alle più costose precedenti tecniche costruttive, è anche alla base di tanta trascuratezza esecutiva delle opere in c.a., soprattutto se messa a confronto con l’accuratezza del calcolo strutturale delle tensioni, delle resistenza e delle possibili deformazioni di carattere statico. Molto spesso, però, tutto questo accurato calcolo è pressoché nullificato dall’assenza di valutazione delle tensioni in forma di aggressioni generate dall’ambiente, e dalle possibili resistenze da opporre a queste aggressioni.
Per fare solo un esempio di trascuratezza tra quelli più frequentemente registrati, si può citare l’adozione di un copriferro di 1-2 cm inadeguato per spessore, e per di più poroso e permeabile, in opere fuori terra (travi di ponti), o esposte ciclicamente all’ambiente marino (come in un bacino di carenaggio) o addirittura al gelo-disgelo ed ai sali disgelanti (come in una soletta di ponte autostradale in alta montagna).
Per rimanere agli esempi sopra menzionati, la distruzione del copriferro (Fig. 1.2) e l’esposizione diretta dei ferri di armatura all’atmosfera aggressiva può avere conseguenze anche molto serie sulla futura staticità delle strutture:
occorre, in questi casi, intervenire con un restauro strutturale per bloccare il processo di corrosione della armature metalliche e proteggere tutte le strutture con un nuovo copriferro più spesso e/o meno permeabile, al fine di
ripristinare la funzionalità e la sicurezza ormai compromesse.
Da un punto di vista pratico, il progetto del restauro statico è molto più complesso e costoso del progetto dell’opera originale per le condizioni di lavoro molto più limitate nella esecuzione, soprattutto se si deve intervenire in corso d’opera senza poter interrompere l’attività cui la struttura in c.a. è destinata, come per esempio in un ponte autostradale, o in un bacino.