Il nuovo calcestruzzo – Gli inerti

4.2 CRITERI DI IDONEITÀ DEGLI INERTI

Non tutti gli inerti – naturali o provenienti da roccia frantumata – sono necessariamente idonei alla produzione del calcestruzzo. Esistono alcuni requisiti fondamentali (criteri di idoneità o di accettazione) in assenza dei quali il calcestruzzo rischia di essere degradato anche se esposto in ambienti non aggressivi. Questi requisiti prevedono l’assenza (o un limitato contenuto) di sostanze nocive alla durabilità del calcestruzzo. La lista delle sostanze nocive include il cloruro, il solfato ed il solfuro, la silice alcali-reattiva, le miche, i limi argillosi e la sostanze organiche. Inoltre, deve essere assente il comportamento gelivo degli inerti, cioè la caratteristica di frantumarsi quando, dopo essere stati saturati con acqua, sono esposti a temperature che favoriscono la formazione del ghiaccio. Gli inerti debbono anche soddisfare alcuni requisiti meccanici in termini di resistenza all’abrasione. Le norme italiane per l’applicazione della norma europea EN 12620 sono la UNI 8520-1 che descrive le istruzioni per eseguire le prove sugli aggregati e la UNI 8520-2 che precisa i requisiti di accettazione. Le prove per verificare la presenza di sostanze nocive e del comportamento gelivo debbono essere effettuate almeno una volta su materiali al primo impiego come inerti per calcestruzzo o per i quali non esista comunque una consolidata esperienza del passato. Una volta accertata la idoneità degli inerti, è sufficiente ripetere una o due volte all’anno queste prove a meno che non esistano specifici motivi per sospettare che sia intervenuta qualche variazione nella fonte di approvvigionamento degli inerti e quindi nel loro comportamento. 

4.2.1 CLORURO

Il limite nel contenuto di cloruro nelle singole frazioni di inerte non deve superare 0,03%; esso è correlato con il rischio di corrosione dei ferri di armatura (§ 10.2.2). Nei calcestruzzi privi di armature metalliche la presenza di cloruro nell’inerte non comporta alcun rischio di serio degrado, ma solo un danno di carattere superficiale per la formazione di depositi salini sulla superficie dei manufatti esposti a cicli alternati di bagnatura e asciugamento. Con qualche straordinaria eccezione, gli inerti inquinati da cloruro sono di fatto identificabili con la sabbia del mare. Questa, in teoria, potrebbe anche essere impiegata come frazione fine di un inerte per calcestruzzo, purché il sale (NaCl) idrosolubile venga rimosso attraverso un preliminare trattamento in un impianto di lavaggio.

4.2.2 SOLFATO E SOLFURO

Il solfato può essere presente nell’inerte in forma di gesso bi-idrato (CaSO4·2H2O) o anidrite (CaSO4). La presenza di solfato nell’inerte oltre un certo limite (0.2%) comporta il rischio di fessurazione del calcestruzzo per formazione di ettringite espansiva a seguito della reazione con gli alluminati del cemento (§ 10.3.1). Se il gesso e l’anidrite sono presenti solo nella frazione fi ne,il quantitativo accettabile non deve superare lo 0,8%. Ci si potrebbe chiedere perché il gesso è tollerato, anzi indispensabile, nel cemento (§ 2.7; 3.4), mentre è guardato come fonte di degrado se presente nell’inerte, soprattutto quello presente nella frazione più grossa (> 5 mm). Il gesso del cemento è macinato nel mulino insieme al clinker (Fig. 2.2) e per la sua elevata finezza si scioglie nell’acqua di impasto rapidamente e reagisce, quindi, immediatamente con gli alluminati del clinker formando una pellicola protettiva di ettringite (primaria) sui granuli di cemento impedendo una presa troppo rapida (Fig. 3.3): esso agisce da regolatore della presa del cemento senza che l’espansione, associata alla formazione di ettringite, abbia ripercussioni negative in quanto avviene uniformemente (su tutti i granuli di cemento) e nelle prime ore di idratazione all’interno di un sistema plastico o comunque deformabile.Al contrario, il gesso eventualmente presente nell’inerte, soprattutto quello presente nell’aggregato grosso, è granulometricamente grossolano e si scioglie nell’acqua che riempie i pori capillari molto lentamente e reagisce, quindi, altrettanto lentamente con gli alluminati del cemento (dopo mesi o anche anni).Questa ettringite – detta secondaria perché si forma in un secondo tempo – si forma all’interno di un calcestruzzo ormai indurito e quindi molto rigido, ed è in grado, pertanto, di provocare pericolose tensioni per il carattere espansivo della reazione che porta alla formazione di ettringite (§ 10.3.1). La distribuzione non uniforme del gesso nell’inerte aggrava il rischio di fessurazione in quanto l’espansione risulta localizzata solo in prossimità dei granuli di gesso con conseguenti tensioni differenziali all’interno del calcestruzzo.A differenza delle sabbie marine, che possono essere eventualmente private dal cloruro (molto solubile in acqua) con un trattamento di lavaggio con acqua potabile, gli inerti inquinati da gesso o anidrite non possono essere bonificati con alcun trattamento e debbono essere assolutamente scartati dalla produzione di calcestruzzi a base cementizia.Con altrettanto sospetto debbono essere guardati gli inerti contenenti minerali a base di solfuri (per esempio la pirite, FeS2), in quanto sia pure con tempi molto più lunghi si possono, per ossidazione, trasformare in solfati e generare fenomeni espansivi e dirompenti correlati con la formazione di ettringite secondaria. Al pari della pirite sono pericolosi i minerali a base di marcassite e pirrotina.

4.2.3 SILICE ALCALI-REATTIVA

Alcune forme di silice presenti nell’aggregato lapideo – quelle amorfe, mal cristallizzate o comunque deformate ancorché cristalline – possono reagire con gli alcali del cemento (sodio e potassio) per formare silicati alcalini idrati dal carattere espansivo e fortemente dirompenti nei confronti della circostante matrice cementizia (§ 10.5.1). Questa reazione, nota come reazione alcali-silice, oppure ASR (Alkali-Silica Reaction), si manifesta attraverso fessurazioni irregolari (Fig. 4.1) o espulsioni localizzate (Fig. 4.2) di materiale (pop-out) che possono pregiudicare seriamente la durabilità delle opere in calcestruzzo.Fig. 4.1 – Fessure da reazione alcali-aggregato evidenziate dalla presenza del silicato idrato alcalino di colore biancastroFig. 4.2 – Frammenti di calcestruzzo (pop-out) espulsi dalla superficie di pavimenti contenenti aggregati reattivi: i frammenti sono stati capovolti rispetto alla loro posizione nei pavimentiPer accertare l’alcali-reattività degli aggregati occorre innanzitutto eseguire l’indagine petrografi ca con l’ausilio di un microscopio ottico per riscontrare la eventuale presenza di minerali silicei potenzialmente reattivi. Questi minerali comprendono l’opale, la silice amorfa idrata (presente in diatomee), il vetro vulcanico (presente nelle rocce a base di rioliti e trachiti), il calcedonio (presente in alcune tipi di selce spesso associato a minerali calcarei), e il quarzo cristallino deformato meccanicamente. Una volta accertata la presenza di questi minerali si procede a prove successive che debbono confermare il carattere effettivamente espansivo e pericoloso. Queste prove sono di due tipi: prova accelerata eseguita a 80 °C e prova a lungo termine eseguita a 38 °C. In entrambi i tipi di prova l’aggregato è macinato per essere ridotto in forma di sabbia e viene quindi mescolato con cemento ed acqua per preparare una malta secondo la modalità descritta nella norma UNI 8520-22. Per entrambi i tipi di prova, i provini prismatici di malta induriti sono sformati dalle casseforme ed immersi in una soluzione acquosa ricca di alcali in forma di idrossido di sodio, Na(OH), alla concentrazione 1 N che corrisponde a 40 grammi/litro dell’idrossido alcalino. Per entrambi i tipi di prova si misura l’allungamento percentuale dei provini rispetto alla dimensione iniziale prima dell’immersione nella soluzione di alcali. Se l’espansione dei provini nella prova accelerata non supera 0,10% l’aggregato è considerato idoneo; se, invece, l’espansione supera 0,10% si procede alla prova a lungo termine: l’aggregato è considerato idoneo se l’espansione dopo 3 mesi non supera 0,05% e quella a 6 mesi non supera 0,10%. La laboriosità delle prove per accertare se un aggregato contiene silice alcalireattiva dipende dalla complessità del fenomeno. Infatti, la presenza di silice reattiva, oltre a essere la forma più insidiosa che può pregiudicare la durabilità del calcestruzzo ancorché non esposto ad alcun ambiente aggressivo, è anche la più erratica e difficile da diagnosticare.Ciò dipende dal concorso di più cause:a) La presenza di silice reattiva in un inerte – a differenza della presenza di cloruro o solfato rilevabile con una semplice e rapida analisi chimica – può essere accertata con molta difficoltà e tempi lunghi.b) La silice reattiva è distribuita in forma discontinua (per esempio, è presente in qualche granulo di inerte, ma è completamente assente negli altri): ciò comporta il rischio di non evidenziare la sua presenza se il campione di inerte sotto esame non contiene alcun granulo di silice reattiva e di considerare, quindi, accettabile un inerte che dovrebbe, invece, essere scartato.c) La reazione alcali-silice dipende dal contenuto di alcali nel calcestruzzo: un contenuto di alcali oltre la soglia di 2 kg per metro cubo di calcestruzzo è considerato pericoloso; a causa della variazione del contenuto di alcali (da cemento a cemento, con il dosaggio di cemento, e talvolta da un periodo all’altro per lo stesso cemento) la reazione alcali-silice presenta una certa erraticità e si può manifestare o meno in condizioni apparentemente eguali.d) La reazione alcali-silice può decorrere solo in presenza di umidità e si verifica, quindi, più frequentemente in ambienti esterni, ma anche in ambienti chiusi come avviene nei pavimenti industriali non protetti con barriera a vapore ed esposti alla risalita capillare di acqua dal terreno.e) La reazione alcali-silice è in generale molto lenta ed è accelerata alle temperature più elevate; tuttavia, a seconda delle circostanze (grado di reattività della silice, umidità e temperatura ambientale, contenuto di alcali) il fenomeno può richiedere da qualche mese ad una decina di anni per potersi manifestare.A causa dell’erraticità del fenomeno e della difficoltà di diagnosticare preliminarmente la reattività della silice, il miglior modo per affrontare il problema è quello di prevenire il fenomeno con l’impiego sistematico di cementi di miscela alla cenere o alla loppa oppure di cementi pozzolanici, d’altoforno o compositi (Capitolo II) in presenza dei quali la reazione alcali-silice è fortemente ridotta o addirittura eliminata (§ 10.5.1). Questa strategia, che è una sorta di assicurazione contro i rischi di reazione alcali-silice, dovrebbe essere adottata in quelle aree (geografi che) dove maggiore si è rivelato, in termini statistici, il rischio di questo degrado. 

4.2.4 REAZIONE ALCALI-CARBONATO

Oltre alla reazione alcali-silice (ASR) discussa nel § 4.2.3, esiste un’altra reazione deleteria tra gli alcali del cemento e l’aggregato, Questa reazione, distinta dall’ASR e nota come reazione alcali-carbonato, consiste in una reazione del sodio e del potassio con un aggregato carbonatico contenente una forma microcristallina di dolomite e calcare.La reazione degli alcali con carbonato consiste nel cosiddetto processo di de-dolomitizzazione che si esplica attraverso la trasformazione della dolomite, CaMg(CO3)2 , in calcare (CaCO3) e brucite Mg(OH)2 come è descritto con maggiori dettagli nel paragrafo 10.5.2. Tuttavia, la comprensione del meccanismo di degrado dovuta alla de-dolomitizzazione è ancora poco chiara. Secondo unateoria alternativa l’aggregato dolomitico conterrebbe in realtà tracce di silice amorfa reattiva capace di reagire e di espandere come nella usuale reazione alcali-silice (ASR). Secondo questa ipotesi, la scarsa quantità di silice amorfa, distribuita in una matrice prevalentemente dolomitica, farebbe erroneamente attribuire solo alla presenza della dolomite il fenomeno del degrado; in realtà, invece, oltre al processo di de-dolomitizzazione coesisterebbe una parallela di reazione alcali-silice. 

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